Elizabeth Strout “Mi chiamo Lucy Barton”

Lucy Barton è una giovane donna che viene ricoverata per una banale appendicite. Tuttavia il decorso post-operatorio si complica per un’infezione, il che la costringe a una degenza di nove settimane, lontana dalle sue piccole figlie, cosa che la angustia non poco.

Costretta nella sua stanza dalla quale vede la silhouette del grattacielo Chrysler (una menzione di merito per Giordano Poloni illustratore della copertina del libro, tanto semplice quanto suggestiva) a un certo punto vede irrompere inaspettatamente sua madre. Si capisce subito che le due donne hanno avuto un rapporto complicato, dominato dal silenzio e avarissimo di confidenza e di gesti affettuosi. Eppure questa donna arriva, affrontando un viaggio aereo di cui mai la figlia la avrebbe sospettata capace, e si mette lì, seduta accanto alla figlia per cinque giorni e cinque notti.

Il romanzo -Lucy è l’io narrante- nel suo stile è un perfetto specchio di questo rapporto così austero e trattenuto, e Strout mostra un vero talento nel rappresentare questi personaggi che comunicano così poco, ma fanno così tanto, pur senza nascondere affatto le difficoltà delle relazioni umane che vede come problematiche e, spesso, fonte di infelicità.

Come sempre la cosa migliore è lasciare parlare l’autrice.

Quando la madre se ne va Lucy commenta: “non dissi mai a quel dottore tanto gentile che mia madre mi mancava terribilmente, che la sua visita era stata, beh, non avrei saputo dire cosa era stata. Anch’io non dissi mai una parola.

E così, quel giorno, mia madre se ne andò. Era in pensiero all’idea di non riuscire a trovare un taxi. Chiesi a una delle infermiere di aiutarla, ma sapevo che, una volta sulla First Avenue, nessuna infermiera avrebbe più potuto esserle d’aiuto. Erano già arrivati in camera due assistenti con la barella per portarmi giù, la sponda del mio letto era già abbassata. Spiegai a mia madre come alzare il braccio e dire ‘La Guardia’ con disinvoltura, come se lo dicesse spesso. Ma mi rendevo conto che era terrorizzata, ed ero terrorizzata anch’io. Non so se mi diede un bacio per salutarmi, non ho idea, ma non riesco a immaginare che l’abbia fatto. Non ricordo che mi abbia mai baciata mia madre. Ma potrebbe avermi dato un bacio, invece; può darsi che mi sbagli”.

Finale che ho trovato incantevole:

“Di recente mi capita di pensare a come d’autunno il sole calava sui campi intorno alla nostra piccola casa. La vista spaziava all’orizzonte, a trecentosessanta gradi, con il sole che scendeva alle spalle mentre il cielo davanti diventava di un rosa delicato e poi di nuovo vagamente azzurro, come se non potesse interrompere il suo ciclo di bellezza, e poi la terra più vicina al tramonto scurirva, fino a farsi quasi nera contro la linea arancione dell’orizzonte, ma se ti giravi, c’era ancora terra disponibile allo sguardo, e di una tale dolcezza, qualche albero, e terreni a riposo già dissodati, e il cielo che resiste, resiste e infine cede al buio. Come se l’anima potesse far silenzio in quei momenti.

La vita mi lascia sempre senza fiato”.

Alla fine ho deciso che si tratta di un romanzo bellissimo, decisamente più bello del pur bello “Olive Kitteridge”, e che forse ogni donna dovrebbe leggere.

Poronga


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