Di W. ho sentito parlare diverse volte in termini positivi se non entusiasti, e quindi ho voluto provare.
Io non mi sono entusiasmato, ma penso sia largamente una questione di gusti personali.
Il libro è sicuramente di spessore ed è, credo, giustamente ambizioso, nel senso che W. si può permettere di esserlo.
In una immaginaria città di frontiera fra l’Europa e l’Asia del Nord, Michailopoli, il commissario Pontus Beg mena una esistenza abbastanza squallida, che si consuma fra spiccioli abusi di potere e malinconici amplessi mensili consumati con la propria domestica, che riserva i giorni ipoteticamente fertili al suo compagno ufficiale.
La vita di Beg ha un sussulto quando scopre che potrebbe avere ascendenze ebree per parte di madre (quelle che contano per poter far parte del popolo eletto). Stringe un rapporto iniziatico con il vecchio rabbino, l’ultimo ebreo rimasto nella comunità, si mette a studiare la Torah, forse alla ricerca di un’identità che gli manca.
Il suo percorso si incontra con quello di alcuni disperati che, entrati clandestinamente in un non meglio identificato paese, ed in fuga dal loro -una versione simbolica, e priva di un preciso contesto etnico e geografico, dei migranti africani e asiatici- vagano per la gelida steppa in cerca di un confine varcato il quale sperano di poter trovare accoglienza, lavoro, vita decente.
Fra questi vi sono un ragazzo ed una donna incinta, che in qualche modo arrivano a Michailopoli. Beg li incontra, e forse, anzi probabilmente, la sua vita cambierà.
Le atmosfere ricordano un po’ quelle de “La strada” di McCarthy, ma c’è una bella differenza di incisività e potenza visionaria, almeno secondo me.
Non lo si può certamente definire un libro brutto, neppure pretenzioso, però nel complesso mi ha lasciato freddino.
Immagino però che possa esserci chi lo ha trovato bello o anche bellissimo, e mi piacerebbe che mi spiegasse perché.
Poronga