Se la gioca con Josè Saramago ma alla fine vince lui, e anche con distacco: per me Gabriel Garcia Màrquez è stato il più grande scrittore della seconda metà del ‘900.
Questo non solo e non tanto per il suo meraviglioso capolavoro (il titolo è ormai entrato nel patrimonio collettivo e quasi più non ci si bada, ma “Cent’anni di solitudine” è uno dei più bei titoli mai pensati), quanto per il complesso della sua opera: per dire, leggendo le prime 300 pagine di “L’amore ai tempi del colera” –l’amore di cui si parla è quello di Florenitno Ariza per Fermina Daza, coltivato per cinquantun anni, nove mesi e quattro giorni, notti comprese- pensavo sbalordito: “Ma è questo il suo capolavoro!”.
E cosa vogliamo dire de “L’autunno del patriarca” (un libro pazzesco, che sembra presupporne altri venti e si conclude con 60 pagine senza un punto), “Dell’amore e di altri demoni”, “Nessuno scrive al colonnello”, “Cronaca di una morte annunciata”, “L’incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata” ecc. ?
Io ho un debole per gli scrittori (come per i registi) che creano un loro mondo e un loro stile; Gabo era uno di questi, e lo era al punto che basta leggere qualche sua pagina per dire “è lui”.
Aveva una prosa densa e sontuosa; una fantasia lussureggiante, eccentrica, inesauribile; un gusto inarrivabile per l’iperbole; una capacità tutta sua di popolare i suoi bellissimi ed esagerati racconti di figure e situazioni quasi mitologiche.
Da un po’ di tempo tenevo lì la sua autobiografia, “Vivere per raccontarla”; credo sia venuto il momento di leggermela, ora che se ne è andato.
Poronga
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