Gustave Flaubert “L’educazione sentimentale”

icona-voto-asino2icona-voto-mezzoasinoflau.jpegNiente da fare, io con Flaubert proprio non ci prendo.

Dopo precedenti esperienze, non esaltanti quando non proprio deludenti, ho riprovato con la sua ultima grande opera, che ho addirittura trovato la peggiore. La vicenda del giovane rampollo di provincia Frédéric Moreau e del suo travolgente amore a prima vista per Marie Arnoux, moglie del ricco e ambiguo Jacques, l’ho trovata lenta, fiacca; tutto un andare e venire fra salotti, feste, chiacchere, maneggi; e in, tale contesto, descrizioni ed elenchi interminabili e stucchevoli. Anche i frequenti e fitti riferimenti alle cronache di allora, se certamente interessanti per i lettori dell’epoca, finiscono, letti oggi, per non dire molto, poco aggiungendo al contesto storico che precedette i moti del ’48. Continua a leggere

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Gustave Flaubert “Madame Bovary”

bovaryChe delusione!

Ho trovato tutto scialbo: la storia, francamente banale, e soprattutto i personaggi: Emma è una donnetta egoista, superficiale (al punto che è uno degli amanti col quale sta progettando una fuga a doverle ricordare la figlia di cui si era dimenticata…), furbastra e venale, che anche sull’orlo del baratro pensa: “Ecco una sala da pranzo come si deve… Cosa darei per possederne una così!”. Insomma, una vera scema.

Charles è un allocco, innamorato pazzo della moglie, che sgobba come un matto da mane a sera (è un medico, ma incompetente, al punto che opera un poveretto con il piede valgo facendogli perdere la gamba), che nulla vuole vedere e capire di quello che Emma fa alle sue spalle.

Lungi da me ogni moralismo: a me anzi gli eroi gli eroi negativi piacciono, ma questi sono tutt’altro che “eroi” e mi sono entrambi sembrati, ciascuno a suo modo, solo irrimediabilmente mediocri.

L’unico che forse raggiunge una risicata sufficienza è il farmacista Homais, laico e progressista (vaghi accenni autobiografici flaubertiani?), ma che alla fine si scopre essere gretto e benpensante.

La scrittura mi è parsa costantemente ordinaria, priva di bagliori e pregi, e talvolta anche opaca (“Pensava che fosse necessario ridimensionare i discorsi esaltati che nascondono affetti mediocri, come se la pienezza dell’anima non traboccasse talvolta dalle metafore più vuote, dal momento che mai nessuno può dare l’esatta misura dei suoi desideri, dei suoi pensieri, dei suoi dolori…”; boh).

Insomma, dei “classici” che ho letto questo mi è parso di gran lunga il più trascurabile, e non mi spiego come abbia potuto avere (forse grazie all’accusa di oscenità?) la fortuna che ha avuto.

Poronga

Gustave Flaubert – Julian Barnes

flaubertbarnesUn cuore semplice, un pappagallo e due grandi scrittori.

Il primo dei Tre racconti di Gustave Flaubert è la descrizione struggente e malinconica della vita di una povera domestica condannata a un’esistenza di solitudine, proprio lei che ha un cuore semplice sì, ma traboccante di bontà, di bene, di amore. Tanto da finire per innamorarsi, dopo una vita di delusioni, di un esotico, coloratissimo pappagallo, Lulù, che la colmerà di gioia mistica.

È a partire da questo racconto, bellissimo, che Julian Barnes scrive il suo primo libro di successo, Il pappagallo di Flaubert, nel 1984.  Un libro insolito, estremamente colto, intelligente, brillante, ma forse troppo pensato e cerebrale, sino a diventare, a tratti, sgradevolmente freddo, crudo, cinico: un libro che Barnes stesso definisce «un romanzo capovolto. […] un romanzo sulla paralisi delle emozioni, sul lutto». Bastino un paio di citazioni, da Flaubert, ma condivise incondizionatamente dal protagonista-narratore del Pappagallo di Flaubert: «Che cosa atroce la vita, no? Come un piatto di minestra su cui galleggiano non pochi capelli. E che dobbiamo comunque mandar giù». «La gente come noi deve avere la fede della disperazione. A furia di ripetersi ‘Ecco. Ecco’ e di contemplare il buio dell’abisso, ci si tranquillizza».

Interessantissimo, comunque, per chi volesse conoscere Flaubert, la sua vita, la sua passione per la scrittura. «Amo il mio lavoro di un amore ossessivo e convulso, come un asceta ama il cilicio che gli tormenta il ventre». Una passione assoluta, senza freni, onnivora, tormentosa («La parola umana è come un paiolo incrinato su cui veniamo battendo melodie atte a far ballare gli orsi, quando vorremmo intenerir le stelle») ma anche appagante come null’altro. «Sono una lucertola letterata che passa il giorno a crogiolarsi al sole splendido della Bellezza. Tutto qui».

Interessante anche, vedere come uno scrittore parli di un altro scrittore, e dunque del rapporto tra l’arte e la vita, tra i libri e i loro lettori, i lettori comuni e gli altri, privilegiati, i critici, che qui vengono fustigati senza remore (per la gioia del nostro Poronga): «Lasciate che vi dica perché detesto i critici. Non per le solite ragioni: che sono artisti falliti (di norma non lo sono; possono essere critici falliti, ma questa è un’altra faccenda); o che sono per natura cavillosi, invidiosi e vanitosi /di norma non lo sono, anzi li si può semmai accusare di eccessiva generosità, di sopravvalutare autori di second’ordine per far apparire più prestigiose le loro raffinate disquisizioni). [Ma piuttosto perché] si comportano come se Flaubert, o Milton o Wordsworth fossero altrettante vecchie zie barbose in sedia a dondolo, di quelle che puzzano di cipria rancida, parlano solo del passato e non dicono niente di nuovo da anni».

Solo il lettore comune, infatti, sa essere appassionato, vivere  un rapporto intenso e vitale con il libro che legge, gravido di conseguenze per la sua esistenza quando incontra un libro importante che lo fa palpitare d’amore, come Lulù alla povera Felicité.

la signora nilsson

Gustave Flaubert “Bouvard e Pécuchet”

flobertRileggo dopo decenni questo classico, che avevo letto poco più che ragazzo. Lo faccio perché lo avevo caldamente consigliato ad un amico che ne è rimasto invece deluso. Nella speranza che mi legga, cerco allora di spiegare perché a me piacque allora e continua a piacere ora. Mi scuso se, per questo motivo, sarò un po’ più lungo e didascalico del solito, ma mi ritengo giustificato per il fatto che questo è per me davvero un grande libro.

La storia è nota: i due, di mezza età, entrambi impiegati di basso livello, si conoscono e fraternizzano subito, in nome dei comuni – e velleitari – interessi culturali. Non si può non intenerirsi per i due amici che, dopo il lavoro ” … al Louvre cercarono di entusiasmarsi per Raffaello. Alla Biblioteca Nazionale avrebbero voluto conoscere il numero esatto dei volumi “. Un’improvvisa eredità, generosamente messa in comune da Bouvard, dà loro l’opportunità di lasciare il lavoro e trasformarsi in aspiranti intellettuali a tempo pieno. Nei dieci capitoli del romanzo – incompiuto per la morte di Flaubert – si ripete lo stesso schema: i due si appassionano ad un argomento, lo affrontano con velleitario entusiasmo, capiscono di non essere abbastanza informati, e allora si immergono nella lettura di numerosissimi libri. Questo però, poco a poco, provoca in loro sazietà e noia per quell’argomento, e decidono di passare ad altro. Gli effetti comici sono spesso irresistibili: cominciano con la chimica, provocando un’esplosione. Pécuchet, pragmaticamente, ” ne conclude che ‘ forse non conosciamo la chimica’ ” e allora, avanti a studiare. Poi è il turno della geologia ( frane ), della medicina ( pazienti quasi morti ), della zoologia ( poveri animali maltrattati ) e poi storia, letteratura, politica, economia, ginnastica, spiritismo, filosofia, religione per finire con la pedagogia, approfittando dell’affidamento di due bambini ( in questo caso il risultato è un povero gatto bollito vivo in pentola da uno dei due angioletti ). Quando una disciplina viene abbandonata, generalmente è per un misto di delusione e spocchia: per esempio, nel caso della letteratura si conclude che ” tutti gli esperti di retorica, di poetica e di estetica mi sembrano degli imbecilli. “.

Questa, a grandi linee, la storia. Come tutti i grandi libri, Bouvard e Pécuchet ha diverse chiavi di lettura, ma forse questo più di altri, anche per il fatto di essere rimasto incompiuto e quindi non sappiamo se Flaubert ci avrebbe fornito qualche strumento in più; ma credo invece che le molte chiavi di lettura fossero proprio nelle sue intenzioni.

C’è naturalmente la chiave più ovvia: l’800 è il secolo del positivismo, nascono, si differenziano e si professionalizzano le discipline scientifiche. I nostri due eroi hanno, da un lato, un atteggiamento pragmatico e positivo: incontrano un problema, cercano di risolverlo, si informano; dall’altro sono due dilettanti pasticcioni che cercano un ideale di conoscenza universale quando ormai si è entrati nell’era della specializzazione. Per amore della scienza sono disposti a qualunque sacrificio: per studiare gli effetti del freddo sui corpi, vanno in giro d’inverno con gli abiti bagnati e si prendono un solenne raffreddore. E’ vero che c’è un illustre precedente nel filosofo Bacone che addirittura si dice che morì in situazione analoga ma, appunto, sono passati 300 anni. E a questo proposito mi viene in mente un altro celebre personaggio del passato, letterario in questo caso, che si imbottiva la testa di nozioni tratte dai libri e credeva di vivere in un mondo sparito da secoli, naturalmente Don Chisciotte. Non so quanto ciò sia voluto da Flaubert, presumo di sì, ma non c’è quasi pagina del libro in cui non mi sia venuto in mente, per l’atteggiamento ingenuo, generoso e anacronistico di questi due Don Chisciotte dell’800 ai quali manca però il buonsenso e il realismo di un Sancho. Noi nel XXI secolo possiamo ridere del dilettantismo dei due e ritenerli degli idiots neanche troppo savants, ma potremmo anche apprezzare l’approccio empirico visto che 150 anni dopo vediamo ancora dogmatismo e irrazionalismo impazzare. Alcune riflessioni ( pseudo) filosofiche sono allo stesso tempo esilaranti e illuminanti:

< Stiamo precipitando nell’abisso spaventoso dello scetticismo>. Secondo Bouvard, solo i cervelli più deboli potevano spaventarsi. <Grazie del complimento>replicò Pécuchet. “. Oppure. ” Il suo bisogno di verità era diventato una sete che bruciava. Scosso dai ragionamenti di Bouvard, abbandonava lo spiritualismo ma poi vi tornava per lasciarlo nuovamente, e tenendosi la testa tra le mani, esclamava: ‘Oh, il dubbio, il dubbio! Preferirei il nulla!’. Scritto nel 1960 potrebbe sembrare il parto di uno studente di filosofia un po’ burlone, ma nel 1880 è perlomeno profetico!

Fatto sta che lo studio dei filosofi pessimisti li spinge al suicidio, naturalmente da sperimentare insieme. Hanno già preparato il cappio per impiccarsi, quando uno osserva ” ma non abbiamo fatto testamento! ” ( cosa particolarmente esilarante, dal momento che entrambi non hanno un solo parente al mondo! ). E tanto basta per farli desistere, e anzi inspirare loro l’interesse per la religione. E allora cosa dobbiamo pensare? Sono stupidi come nello stereotipo, sono folli come Don Chisciotte, o non sono forse loro a farsi beffe di noi lettori?

Credo che avesse ragione Borges, che come scrittore può piacere o meno ( a me piace ) ma come lettore è senza discussioni uno dei massimi di sempre, quando disse che ” Bouvard e Pécuchet è un libro solo in apparenza semplice “. Tutti ridiamo delle disavventure dei due, ma attenzione, non sono solo dei goffi dilettanti. A questo proposito, va anche ricordato che pare che Flaubert, che ha lavorato a questo romanzo per molti anni, abbia consultato più di 1.500 libri per scriverlo. Dunque, se anche voleva dipingere due pasticcioni, voleva farlo con molta cognizione di causa!

Un aspetto che secondo me non viene abbastanza sottolineato è che è anche un libro sull’amicizia. Amicizia che nasce improvvisa su vaghi interessi comuni e che va avanti per decenni, senza mai screzi che non siano differenze puramente intellettuali e come tali provocano anche discussioni accese ma non mettono mai in pericolo l’amicizia, e questa secondo me è una grande lezione morale per chi vuole comunque veder prevalere le proprie opinioni, e chi non la pensa come lui è un nemico o uno stupido ( secondo la famosa definizione dello stesso Flaubert nel Dizionario dei luoghi comuni ” imbecilli sono tutti quelli che non la pensano come noi” ). Bouvard e Pécuchet sono una delle 3 o 4 grandi coppie di amici della letteratura di tutti i tempi, e forse l’unica per la quale non vale il sospetto neppure della più velata inclinazione omosessuale.

Non voglio dilungarmi troppo, ma altre chiavi di lettura possono essere quelle fra la modernità e il mondo tradizionale, fra la borghesia ormai sviluppata e i residui del mondo aristocratico, fra una società in rapido movimento e la società praticamente immobile dei secoli precedenti e, essendo in Francia, fra l’empirismo e il razionalismo. Fra le tante letture in chiave ironica ne ho colta una che non so assolutamente se fosse nelle intenzioni di Flaubert – anche perché non so nulla delle sue idee politiche -, ma è plausibile almeno cronologicamente. Nei due pasticcioni multitasking non si può anche vedere una parodia dell’uomo comunista di Marx che, liberato dalle catene del capitalismo, può dedicarsi ” al mattino a cacciare, al pomeriggio a pescare e alla sera a criticare, senza essere né pescatore, né cacciatore né critico “? Anche se non fosse voluta, sarebbe comunque un’ironia feroce. Eppure, secondo molti lettori, l’ironia di Flaubert è rivolta soprattutto contro la ” stupidità borghese “.

Restando sul problema della stupidità dei due eroi, perché poi è questo il cuore del libro, verso la fine c’è una frase molto famosa: “ Allora una capacità imbarazzante si sviluppò in loro, la capacità di vedere la stupidità umana e di non tollerarla più ”. Qui veniamo una volta di più spiazzati: Flaubert descrive i suoi due personaggi, oppure se stesso? E una volta di più ci chiediamo: ma questo libro è a favore della scienza o contro la scienza? Contro la stupidità borghese o contro la stupidità socialista? O contro tutte le stupidità? ( già, ma poi chi decide cosa è stupido? ). Ognuno può dare le risposte che preferisce, ma è proprio in questa ambiguità che sta gran parte del fascino del libro.

E ancora a proposito di ironie non si sa se volontarie o meno, ne ho colto un’altra alla quale non avrò mai una risposta, e con questa chiudo. I molti libri e i molti intellettuali e scienziati citati sono, con pochissime eccezioni, quasi solo francesi. Non c’è da stupirsi, i Francesi lo fanno anche adesso. E passi anche che nella seconda metà dell’800 non c’era né internet né la globalizzazione, ma le idee e i libri circolavano già. Quindi mi resta il dubbio se Flaubert volesse farsi beffe del provincialismo dei suoi due eroi, o se sia rimasto egli stesso vittima di un atteggiamento che è una costante della cultura francese nei secoli.

traddles