Le 300 pagine iniziali sono fenomenali. I primi anni della lunga vita di Carlo Altoviti, ragazzetto di casata nobile ma decaduta, sono raccontati con una brillantezza, un ritmo, un’acutezza, un’eleganza che ho trovato quasi prodigiosi.
Nievo, a soli 26 anni, in un romanzo di oltre 1000 pagine scritte di getto in un anno (!) -e si vede- infila una dopo l’altra una serie di perle quali il colloquio fra il giovane e futuro Monsignor Orlando e il vecchio Conte, il ritratto della Pisana e di Lucilio, l’incontro fra Leopardo e Loretta, l’integrità morale di Carlo bambino (episodio del cavaliere notturno), le manovre per maritare Clara e i fermi rifiuti di questa, che secondo me rientrano a pieno titolo fra le più belle pagine della letteratura italiana.
Inoltre Nievo offre una testimonianza di genuino ardore risorgimentale e patriottico, svolge una professione di dolorosa laicità, fa sfoggio di una profondità e saggezza davvero fuori del comune, dando infine più volte prova di una eloquenza elegante e calibrata.
Carlo Altoviti, ormai ultraottantenne e in serena attesa di una morte che lo ricongiunga alla donna da sempre amatissima, racconta la sua storia e di come “girai alcuni anni lo spiedo, fui studente e un po’ anche cospiratore; indi tranquillo cancelliere, poi patrizio veneto nel Maggior Consiglio e segretario nella Municipalità: da amante spensierato di tutto mi mutai di colpo in soldato; da soldato in ozioso un’altra volta, poi in intendente e maggiordomo; finii a maritarmi e a sonar l’organo“.
Carlino (poi Carlo) è una bella figura: coraggioso, onesto, idealista, sbrigativo (“Quello che è fatto è fatto –pensai- il da farsi facciamolo bene”).
Il romanzo è denso di figure di primo piano (Clara, Lucilio, il Conte e la contessa, il padre pragmatico e levantino) e di secondo piano (Spaccafumo, Aquilina, Giulio, Orlando, la sorella di Carla e il marito, il servo Martino, il capitano) e dipinge un mondo cui alla fine ci si affeziona. E’ anche pervaso da una calda e sincera aspirazione patriottica.
Il periodo più intenso e vitale di Carlo corrisponde, a cavallo fra la fine del ‘700 e i primi decenni dell’800, alla decadenza di Venezia, ai trionfi anche italiani di Napoleone, alle speranze presto cocentemente deluse che questo suscitò nei liberali italiani, ai crescenti fermenti unitari che si svilupparono a partire dagli anni ’20, spesso sanguinosamente repressi.
Nievo esprime in modo niente affatto fastidioso un genuino ardore e idealismo, condito da una buona dose di gagliardo brio e anticonformismo, non privo di una certa scanzonatezza (“la morte di questo… mi persuase sempre più che ad essere forti e generosi c’è sempre da guadagnare. Non foss’altro si muore allegramente: e questa, oltre che ventura desiderabilissima, è anche la pietra di paragone su cui si differenziano i galantuomini dai tristi”).
Insomma questo Nievo, oltreché eccellente scrittore, doveva davvero essere un gran bel tipo.
Purtroppo il romanzo da un certo punto in poi cala vistosamente: l’eloquenza brillante si fa talora trombona ed enfatica, spesso si cade nel patetico, le tirate patriottiche e moralistiche diventano noiose.
Però questo è un libro che ricordo con grande piacere, e mi resta un certo rimpianto per le opere che questo fiero garibaldino, morto a soli trent’anni, ci avrebbe potuto ancora regalare.
Poronga