Romanzone ottocentesco. Un colonnello inglese durante le guerre coloniali in India ruba e porta in patria un leggendario diamante che adornava la sacra statua di una divinità indiana. Il ladrone destina il gioiello ad ornare il bel collo della giovane nipote Rachel.
Sono ormai passati cinquant’anni dal furto, ma tre bramini sono sulle tracce del diamante per riportarlo in patria. Il gioiello sparisce la notte stessa in cui esso è stato consegnato a Rachel. Parte da qui una intricata trama, ricca di colpi di scena più o meno riusciti, nella quale si inseriscono alcuni personaggi fra cui spiccano in modo particolare il fedele e inflessibile capo-maggiordomo Betteridge, che nella sua vita sembra aver letto solo “Robinson Crosue” che usa come una specie di Bibbia per trarne insegnamenti per ogni caso della vita, e il Sergente Cuff, che a uno spiccatissimo senso di osservazione associa capacità logico-deduttive acutissime, e che solo una cosa può distrarre dalle sue indagini, ossia l’arte della coltivazione delle rose, che lo vede impegnato in interminabili dispute con il giardiniere della villa patrizia dei Verinder, teatro del furto, e nella quale si svolge la trama del libro. Cuff mi è parso il personaggio di gran lunga più riuscito, non solo perché le sue deduzioni sono tanto geniali quanto credibili -e i fatti alla fine gli daranno ovviamente ragione-, ma soprattutto per la sua felice caratterizzazione: molto meglio, per dire, del saccente e cervellotico Sherlock Holmes. Continua a leggere