Non ho mai letto niente di Ishiguro. So che Quel che resta del giorno è considerato un capolavoro, e la vittoria del Booker Prize è quasi sempre una garanzia, ma chissà perché non mi è mai venuta voglia di leggerlo. Sono invece stato incuriosito da questo nuovo libro, appena uscito in inglese, e da alcune critiche molto positive. Purtroppo, sono rimasto un po’ deluso, e cercherò di spiegare perché.
Siamo nell’Inghilterra del VI secolo, poco resta dell’età romana, inizia il Medio Evo e il formarsi di una identità nazionale in un paese diviso fra Britanni, cristianizzati, e Sassoni, rimasti pagani. Il fuoco cova sotto la cenere, ma in qualche modo si è arrivati ad una convivenza pacifica grazie soprattutto all’opera di Re Artù, che però è scomparso da molti anni. La pace, o meglio la non guerra, è dovuta a una strana nebbia, che offusca la memoria e con essa anche il desiderio di vendetta. Come si vede, siamo in una atmosfera alla Tolkien, ma il paragone è superficiale. Ishiguro mischia elementi di tradizioni mitologiche di ogni tipo, anglosassoni, greche e romane: c’è un traghettatore che ricorda molto da vicino Caronte ( e che nell’ultimo capitolo diventa la voce narrante ); c’è un cavaliere sassone che sembra disegnato su Beowulf, e un cavaliere britannico che non ricorda ma è veramente Gawain, uno dei più noti compagni di Artù. Ci sono poi monaci intriganti che sembrano usciti dalla penna di Chaucer, e una folla di orchi, draghi e folletti. E soprattutto c’è la dragonessa ( si dice? ) Querig, che domina la scena anche se vecchia e morente, perché è il suo respiro a creare quella nebbia che ottunde la memoria e gli spiriti bellicosi. Incantesimo, neanche a dirlo, di Mago Merlino.
Chi, come me, non è interessato al fantasy, potrebbe fermarsi qui. Ma, come ho già detto, nel libro c’è di più, e il fantasy è un espediente, un mezzo non un fine. Il libro affronta tematiche importanti: ci sono atmosfere da tragedia greca, assistiamo a due duelli nei quali il soccombente sa benissimo che perderà la vita, ma come gli eroi omerici non può opporsi al fato; c’è chi vuole uccidere il drago e spezzare così il sortilegio, anche se questo porterà inevitabilmente alla guerre, e chi vuole tenerlo in vita, pagando il prezzo di una anestesia del libero arbitrio per evitare spargimenti di sangue.
Ho parlato delle atmosfere, ma non ancora dei due veri protagonisti: una coppia di anziani Britanni dal passato misterioso, che a un certo punto vengono presi dal desiderio di rivedere il figlio, che li ha lasciati non si sa da quanto tempo, per andare non si sa dove, non si sa se partito perché arrabbiato con loro. Tutto è immerso nella nebbia. Si mettono in viaggio, e sono loro ad incontrare il traghettatore, i cavalieri, i monaci e gli altri personaggi umani e non umani del romanzo. E sono loro ad introdurre un’altra tematica fondamentale, quella dell’amore: Caronte traghetta su un’isola misteriosa solo le coppie che gli dimostrano di amarsi veramente ( spiace dirlo, ma il mio dovere di cronista me lo impone: sono piuttosto poche! ).
Le vicende del libro sono numerose e complesse, e non posso certo raccontarle tutte. Capisco bene che Ishiguro non voleva imitare Tolkien o altri autori fantasy, ma usare il fantasy come allegoria per parlare di problemi importanti. Bisogna dare atto che è stata una scelta coraggiosa ma, a mio avviso, anche una sfida che Ishiguro ha perso. Naturalmente, Il motivo della mia insoddisfazione non è l’uso in sé dell’allegoria e della metafora per affrontare problemi di quindici secoli fa o di oggi o eterni, che è un espediente che a volte può riuscire benissimo. Per certi aspetti, The Buried Giant mi ha ricordato Cecità di Saramago. Ma qui l’allegoria era fortissima e inequivocabile; in Ishiguro, per ritorcergli contro il suo stesso espediente, anche le allegorie mi sono sembrate sfumate, non ben definite. Insomma, immerse anch’esse nella nebbia che sfuma tutti i contorni.
Essendo in tema di antichi cavalieri, riconosco però a Ishiguro l’onore delle armi, e del libro salvo almeno tre cose. La prima è il rapporto fra i due anziani coniugi, che mettono coraggiosamente alla prova il loro amore. La seconda è il rapporto fra i due gruppi di proto-Inglesi, i Britanni e i Sassoni, come simbolo di popoli simili che potrebbero vivere in pace, ma ai quali basta una scintilla per scatenare un odio implacabile. All’anziano Britanno che definisce la vendetta e l’odio fra i popoli ” un passato barbarico che speriamo sia finito per sempre “, risponde, nelle pagine finali del libro, il guerriero sassone: ” I legami amichevoli fra i nostri popoli si riveleranno per quello che sono davvero, soltanto nodi fatti da ragazzine con gli steli di fragili fiori “. Sappiamo bene a chi i successivi quindici secoli di storia hanno dato ragione.
E infine salvo il linguaggio, raffinato ed essenziale allo stesso tempo. Ishiguro scrive bene, su questo non ho dubbi. E a questo proposito, voglio chiudere con un piccolo esempio, che forse non sarà la cosa più significativa, ma a me è parsa irresistibile. Riguarda Sir Gawain, questo disincantato cavaliere, ormai vecchio e stanco, ma ancora pronto a dare la vita per la missione affidatagli da Artù.Parla spesso delle avventure vissute assieme al suo altrettanto vecchio cavallo che tratta come un umano e molto educatamente, come ancora oggi insegnano nelle scuole inglesi, e come in Italia non fa più nessuno, non dice ” io e Horace ” ma ” Horace ed io “. Forse anche da queste piccole cose nasce una civiltà.
Tiresia
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