Che gli scrittori portoghesi siano un po’ speciali? Io finora ne conoscevo sostanzialmente due, decisamente molto speciali, ossia Saramago e Pessoa.
Ora ho letto il romanzo di un terzo, che se non può essere messo al livello dei primi due, però ne condivide il modo singolare e insolito di scrivere, che certamente mette alla prova l’impegno del lettore, raggiungendo però risultati di rispetto.
L’io narrante di questo romanzo ha incontrato una donna. Un po’ la vuole sedurre, un po’ le vuole raccontare, quasi a scaricarsene, la sua vita e, soprattutto, l’esperienza fatta quale ufficiale medico nella guerra di Angola, l’ultima guerra coloniale condotta a partire dagli anni ‘60 e fino al 1974 dal Portogallo salazarista.
In una lunga notte si alternano, senza preavviso, ricordi di guerra, scampoli di vita vissuta, riflessioni esistenziali -quasi sempre amare-, e i progressi che l’uomo fa alla conquista della donna.
Si procede nella lettura con difficoltà, con fatica, perché lo stile è malagevole e zigzagante, galleggiando LA sempre fra la prosa e la poesia, alla ricerca di espressioni insolite, talora riuscite (“un’alba di un novembre triste come la pioggia in un cortile di collegio durante la lezione di matematica”) talaltra meno.
Ci sono descrizioni della misera condizione umana talmente sconsolate che nei momenti più ispirati (non tantissimi, per la verità, mi è parso) assurgono a livelli gaddiani. Ad esempio:
“E un pomeriggio, seduto alla terrazza di un caffè nei dintorni di Lisbona, alla presenza gassosa di un’acqua minerale, scoprii che ero morto, capisce, morto come i suicidi del viadotto che ogni tanto incrociamo per strada, pallidi, dignitosi, col giornale sotto il braccio, che ignorano di essere morti e i cui aliti odorano di polpette con purè di patate e di trent’anni di funzionario esemplare“.
In qualche parte, quando si parla della guerra e dei soldati, ho trovato addirittura accenti celiniani:
“… capisce cosa vuol dire voler fare l’amore e non trovare con chi, la miseria di masturbarsi senza pensare a nulla, tirare la pelle avanti e indietro in una sorta di mesto svenimento, un po’ di liquido ed ecco fatto, pulirsi le dita nelle mutande tirar su la lampo ed uscire per la parata”.
E infine l’epilogo:
“ Abbiamo passato ventisette mesi insieme in culo al mondo, ventisette mesi di angoscia e di morte insieme in culo al mondo, nelle sabbie dell’est, nelle piste dei Quiocos, o fra i girasoli del Cassanje, abbiamo mangiato la stessa nostalgia, la stessa merda, la stessa paura, e ci siamo separati in cinque minuti, una stretta di mano, una pacca sulla schiena, un vago abbraccio, ed ecco che le persone scompaiono, dalla porta della caserma, piegate sotto il peso del bagaglio, evaporando nel vortice civile della città”.
Poronga