Di Tracy Chevalier avevo apprezzato il famoso La ragazza con l’orecchino di perla e avevo poi letto altri due romanzi, Quando cadono gli angeli e La vergine azzurra, letture piacevoli anche se non avevano la forza del primo, e mi sembrarono un po’ leziosi ( lungi da me riaprire le polemiche sulla scrittura al femminile! Ho scelto il soprannome Tiresia proprio per ecumenismo di genere ). Avevo quindi lasciato perdere i libri successivi.
Questo però mi è stato caldamente consigliato e devo dire non a torto. Siamo nelle zone rurali degli Stati Uniti intorno a metà Ottocento. Due coniugi in perenne litigio fra loro mettono al mondo dieci figli, metà dei quali muore per le febbri malariche, e tutti i membri della famiglia faticano come muli per coltivare un frutteto nel clima decisamente ostile di una zona non a caso chiamata la Palude Nera. Il padre fa della coltivazione delle mele quasi una religione ( ” James amava le mele più del whiskey e del caffè, più del tabacco e perfino del sesso… Non era un sentimentale, lui, non piangeva neppure quando gli moriva un figlio: Scavava una fossa e lo seppelliva. Però si faceva cupo e silenzioso se doveva buttare giù un albero, pensando a tutto il tempo in cui aveva gettato la sua ombra in quell’angolo della foresta. Non gli capitava con gli animali che cacciava, erano solo cibo, creature che passavano attraverso il mondo e se ne andavano in fretta. Come le persone. Ma gli alberi sembravano fatti per durare. ” ). La madre invece non sopporta quella vita così dura e sogna di evadere. I cinque figli sopravvissuti hanno ciascuno la propria personalità, ma noi seguiamo in particolare Robert che a soli nove anni, in seguito ad una tragedia familiare, scappa di casa e comincia una lunga traversata delle terre ancora selvagge che lo porterà sino alla California. Il tutto dovendosi guadagnare da vivere e riuscendo anche a procurarsi un minimo di istruzione.
Il romanzo potrebbe quasi definirsi un romanzo vegetale (assolutamente da consigliare a Boeri): grande protagonista è la vegetazione dell’ancor giovane terra americana, e Robert passa dai meli della sua infanzia ad occuparsi, al seguito di un naturalista inglese, delle sequoie giganti della California. Ma al di là di quello che probabilmente è un vero amore, la descrizione della natura selvaggia è una metafora dell’America dei pionieri e della crescita di uno spirito sensibile come quello di Robert dall’infanzia all’età adulta, tra mille peripezie, delusioni e conquiste. La scrittura è intensa, niente affatto leziosa come in altri casi, e ho apprezzato anche l’espediente di alternare parti dove a parlare è la voce narrante a parti raccontate in prima persona dalla madre. Personaggio che ha i suoi difetti e non ha lo spirito pionieristico del marito e di Robert, è anche una ubriacona e una scostumata, ma rappresenta una parte importante dello spirito americano, l’anima ribelle, insofferente e anarcoide, e in quanto tale ha fatto bene secondo me la Chevalier a darle una rilevanza particolare facendone l’unica voce narrante diversa da quella dell’autrice stessa.
P.S. solito poscritto per perditempo pignoli come me. Gli editori italiani spesso hanno l’abitudine di modificare i titoli originali senza necessità. Il titolo inglese è At the Edge of the Orchard. Decidete voi se Al margine del frutteto non sia migliore e più evocativo e aderente al tema di I frutti del vento.
Tiresia