Giulia Caminito è proprio brava. Vincitrice con pieno merito del Campiello con l’eccellente “L’acqua del lago non è mai dolce”, già commentato, dà mostra delle sue notevoli qualità anche in questo romanzo, scritto due anni prima.
Ambientato agli inizi del Novecento nelle Marche, racconta innanzi tutto l’epopea degli umili, quelli che non possiedono nulla “se non le braccia per lavorare”, rassegnati al fatto che “chi lavora sa di doversi fare male, con una falce, con un vecchio ferro, cadendo da un fienile, schiacciato da un carro, battuto da uno zoccolo, trascinato troppo al largo da un peschereccio, bruciato da una pala del pane bollente, piegato tra incudine e martello, il loro era un corpo che doveva ferirsi“; e ridotti a una condizione di schiavitù, dove “il padrone faceva le leggi dei suoi campi, decideva chi lavorava e chi no, chi si sposava e chi no, in quanti si sarebbero dovuti sedere alla tavola del contadino; i figli in più il padrone li mandava via“.