Parlando recentemente di un romanzo di Amos Oz appena uscito in Italia ma scritto nel 1973 mi chiedevo che senso aveva pubblicare oggi un libro così datato e con una storia di ebrei polacchi sotto la persecuzione nazista, una delle tante storie già sentite mille volte. Nello stesso 1973 uscì questo romanzo autobiografico scritto da una ebrea ceca, ma in questo caso ha fatto benissimo Adelphi ad offrire al pubblico italiano la possibilità di leggerlo. Heda, come molti altri ebrei dell’Europa orientale, ha avuto la sventura di essere perseguitata dai due grandi totalitarismi del Novecento, quello nazista e quello comunista. Fuggita da un lager tedesco e vissuta nascosta a Praga negli ultimi mesi di guerra, è l’unica superstite della sua famiglia, ma ritrova il fidanzato, anche lui sopravvissuto miracolosamente. Si sposano e il marito, integerrimo comunista convinto della bontà di fondo del sogno socialista, entra a far parte del governo ceco ma nel 1952 viene arrestato, sottoposto a un processo farsa e impiccato. Per Heda la vita diventa durissima, deve pensare alla sopravvivenza propria e del figlio. Nel 1963 il marito viene riabilitato, la vita diventa un po’ meno dura, fino al 1968 con la Primavera di Praga e l’invasione sovietica. Qui la storia si interrompe, ma sappiamo che Heda dopo molte esitazioni per senso patriottico, alla fine decide di raggiungere il secondo marito e il figlio – che tuttora vive ed è un architetto famoso – in Occidente. Avrà poi la fortuna di poter tornare in una Praga libera nel 1996 e vivervi fino alla morte ad oltre novant’anni.
Perché questo, al contrario di quello di Oz, è un grande libro?