Javier Cercas “La donna del ritratto”

don.pngicona-voto-asino2Di Cercas avevo letto e recensito “L’impostore”, apprezzandone la capacità di scrittura e ironizzando sulla sua esibita vena narcisistica…  Un giudizio ambivalente, ma almeno quella era una vicenda degna di qualche interesse, su cui ci si poteva porre interrogativi, farci qualche riflessione.

Invece, questo “La donna del ritratto” non saprei come definirlo, se non una accozzaglia di improbabili e non interessanti vicende, condita con uno smisurato senso dell’ego dell’Autore che si esterna con aforismi, citazioni letterarie di non eccelsa qualità, luoghi comuni spacciati per verità originalissime (tipo, a proposito di non interrompere un interlocutore “Chi abbia ancora una buona opinione dell’altruismo non deve giudicare tale comportamento come altruista: lasciar parlare l’interlocutore è senza dubbio uno dei modi più efficaci e veloci per ottenerne il suo apprezzamento..” Ma va! Che acume!

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Javier Cercas “L’impostore”

cer.pngConoscevo Javier Cercas attraverso i libri recensiti nell’Asino (Soldati di Salamina e Le leggi della frontiera), mi era sembrato uno scrittore da conoscere direttamente e stavo decidendo quale dei due libri acquistare per primo, quando un mio amico ha risolto il mio dilemma regalandomi L’impostore e  presentandolo come il più bel romanzo di Cercas, cosa del resto affermata anche in quarta di copertina. Dopo averlo letto, non posso ovviamente  dire se sia il più bello, ma posso dire che  Cercas è certamente uno che sa scrivere bene e che questo è certamente un bel libro. Parla della vita e della storia di Enric Marco, un personaggio ancora oggi vivente a 95 anni, e di come Marco sia riuscito, con una fantasia e una capacità oratoria  che hanno dell’incredibile, a inventarsi una falsa biografia personale di combattente nelle Resistenza Spagnola, e successivamente di deportato in un campo di concentramento nazista, a cui sarebbe sopravvissuto diventando  un testimone vivente e universalmente noto delle atrocità naziste, ascoltatissimo dai media e dalle istituzioni, fino a diventare Presidente della Amical de Mauthausen, la più importante associazione spagnola delle vittime del nazismo. Per riuscire in questa impresa, Marco si documenta minuziosamente sui fatti che lo vedono protagonista, che magari conosce per analogia o per testimonianze indirette, mescola abilmente menzogne e verità, fino a renderle indistinguibili, spesso con la complicità , più o meno consapevole, delle “vittime” di questo colossale inganno, che trovano utili le sue testimonianze per tenere viva la memoria storica dei fatti e degli orrori  cui Marco si dichiara protagonista, sopravvissuto, storico o comunque  testimone vivente e facondo.

Successivamente, nel 2005, Marco viene smascherato quasi casualmente, fra lo sconcerto di tutti coloro che lo ritenevano un eroe e che avevano tratto vantaggi dalla sua impostura, e da qui ha inizio la sua seconda vita, la lotta di Marco per non farsi travolgere del tutto,  per dimostrare al mondo che non è proprio un impostore, e che se anche lo fosse lo sarebbe a fin di bene, che comunque lui è una brava persona, amato dalla sua famiglia e da  tutti coloro che lo hanno conosciuto… Questo sembra vero, anche secondo Cercas, nessuno riesce a odiarlo e a considerarlo una persona indegna, e Marco continua, imperterrito e con energie che sembrano inesauribili, a cambiare versione, a cercare nuovi appigli, nuovi sostegni, a cercare di ripartire… (mi ricorda, mutatis mutandis, un personaggio dell’Italia contemporanea…).

Ma, oltre a raccontare la storia di Marcos, L’impostore parla  di Javier .Cercas, delle sue convinzioni letterarie, dei suoi dubbi e della sua autovalutazione, e anche  del suo enorme narcisismo. Lui stesso verso la fine arriva a rappresentarsi un po’ come il doppio di Marcos stesso, e certamente in più occasioni si accosta senza il minimo problema né ritegno a Cervantes, tramite l’accostamento della sua creazione  del  falso-Marco/vero-Marco alla creazione di Don Quijote/Alonso Quijano realizzata da Cervantes (!).

Sia come sia, il libro contiene quella che secondo me è una delle più belle invettive contro l’inquinamento di valori reali da parte di pseudo valori fittizi creati ad arte approfittando di una generale rilassatezza, calo di attenzione e latitante acume intellettuale.

Cercas parla della “industria della memoria”:

“Cos’è l’industria della memoria? Un affare. Cosa produce questo affare? Un surrogato, un abbassamento, una prostituzione della memoria; e anche una prostituzione, un abbassamento e un surrogato della storia, perché, in tempi di memoria, quest’ultima occupa gran parte del posto della storia. O, detto in altro modo: l’industria della memoria sta alla storia  autentica come l’industria dell’intrattenimento sta all’autentica arte e, così come il kitsch estetico è il risultato dell’industria dell’intrattenimento, il kitsch storico è il risultato dell’industria della memoria . Il kitsch storico, vale a dire: la menzogna storica.”

 

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Javier Cercas “Le leggi della frontiera”

leggi.pngNon mi era mai capitato di identificarmi così tanto in un personaggio di un romanzo, personaggio peraltro, e lo dico a parziale scusante di questa annotazione narcisistica, non certo privo di difetti e di colpe, e che è quello che forse alla fine ne esce meno bene del terzetto protagonista. La vicenda dell’incontro, casuale ma decisivo, di tre adolescenti, l’uno, Gafitas, cresciuto nella zona borghese di Gerona, e gli altri due, Zarco e Tere, in quella dei baraccati oltre al fiume, viene definita nelle note “un romanzo generazionale”. La storia centrale del romanzo, scritto a flash back in forma di immaginaria intervista a Gafitas, nel frattempo diventato uno stimato avvocato, si svolge nella estate del 1978 in quel complicato trapasso storico della fine della Spagna franchista, e racconta un incontro destinato al fallimento. Quello di due mondi nati separati da quel fiume che costituisce tra loro insormontabile la “frontiera” non solo logistica ma sociale e che ne determinerà i rispettivi e diversi destini. E’ una storia molto forte che non fa sconti a nessuno, è una storia di amicizia e di lealtà, di amori e di tradimenti, di ingenuità e di malizia, di criminalità giovanile e di ingiustizie, ma è soprattutto la storia di un percorso individuale straordinario. Quello che compie appunto il protagonista Gafitas e che è impossibile non seguire dalla prima all’ultima pagina con trepidazione e gratitudine all’autore che l’ha scritta. Forse sarà stata quella identificazione di cui parlavo all’inizio, ma appena terminata la lettura ho avuto la sensazione di avere, con “le leggi della frontiera”, finalmente letto il libro che avrei sempre voluto leggere e che non sapevo esistesse, fatto del quale non posso non rendere grande merito a chi qualche tempo fa me ne ha fatto dono.

Davide Steccanella

Javier Cercas “Soldati a Salamina”

cercasCercas, in piena crisi personale, racconta il suo imbattersi in una storia quasi incredibile avvenuta durante la Guerra Civile Spagnola: quella di Rafael Sànchez Mazas, uno dei fondatori della Falange Franchista, che scampa miracolosamente a una fucilazione da parte dei repubblicani in rotta, e, ancora più miracolosamente, al successivo rastrellamento:  un soldato repubblicano fa finta di non vedere dove è nascosto, in tal modo salvandolo.

Insomma, Sànchez scampa due volte a morte sicura in pochi minuti.

La prima parte del romanzo è quindi dedicata al racconto di come Cercas abbia deciso di scrivere questo stesso libro e a come lo ha poi scritto.

La seconda parte del romanzo, forse la meno interessante, è dedicata al racconto della storia di Sànchez e si conclude con il suo rocambolesco duplice salvataggio.

S. viene descritto come un idealista di destra, desideroso di instaurare un “regime di poeti e condottieri rinascimentali”, che finisce per trovarsi di fronte a un “mero governo di filibustieri, profittatori e bigotti”, ma che nonostante ciò orgogliosamente rivendica il suo passato e le sue idee (“Non mi pento e non dimentico”).

La terza parte è senz’altro la più bella: Cercas ha finito il libro ma non è totalmente soddisfatto; gli manca qualcosa, e questo qualcosa è il poter trovare e parlare con il repubblicano che tanti anni prima salvò la vita di Sànchez.

Qui entra come personaggio uno dei miei miti letterari, ossia Roberto Bolano, amico di Cercas, che gli racconta di quando, lavorando come custode di un  camping (lavoro che in effetti Bolano ha fatto fra innumerevoli altri) conobbe un vecchio soldato repubblicano, tale Miralles.

Cercas, aiutato dalla sua simpatica e disinibita  compagna, si mette alla ricerca di questo uomo che ritrova vecchio, imponente, pieno di cicatrici.

Come va a finire ovviamente non lo dico; dico solo che qui il libro diventa veramente bello, fino al -grande scioglimento finale, dove riesce ad accomunare con sincera pietà e senza alcun buonismo il destino dei tanti che morirono ammazzandosi l’un l’altro in una guerra fratricida così piena di passioni, odio e divisioni.

Da quando è finita la guerra non è trascorso un solo giorno senza che abbia pensato a loro. Erano così giovani… Morirono tutti. Tutti morti. Morti. Morti. Nessuno ebbe il tempo di assaporare le cose buone della vita”.

Una delle cose più belle della letteratura è che talora riesce a farti vedere le stesse cose sotto angoli diversi che sono tutti ugualmente veri, per quanto a volte addirittura antitetici.

Mi viene in mente per contrasto la splendida pagina scritta da Italo Calvino ne “Il sentiero dei nidi di ragno” (secondo me il più bel libro scritto sulla Resistenza), dove spiega l’abisso che separa un “Ti amo Adriana” detto dal partigiano Kim da un “Ti amo Kate” detto da un soldato tedesco.

Eppure, nonostante dicano proprio l’opposto, c’è spazio sia per questa pagina che per quello che scrive Cercas in questo romanzo.

Bellissimo l’incipit:

Fu nell’estate del 1994, più di sei anni fa, che sentii parlare per la prima volta della fucilazione di Rafael Sànchez Mazas. In quel periodo mi erano da poco successe tre cose: la prima era stata la morte di mio padre; la seconda, mia moglie mi aveva lasciato, la terza, la decisione di abbandonare la carriera di scrittore. Sto mentendo. Per la verità, di queste tre cose, le prime due sono esatte, eccome; ma non la terza. In realtà, la mia carriera di scrittore non si era mai avviata, quindi, difficilmente avrei potuto abbandonarla”.

Poronga