Donna Tartt “Dio di illusioni”

dio20 “cardellini” fa il romanzo d’esordio della scrittrice americana famosa per pubblicare un ambizioso romanzo ogni dieci anni, e che era dedicato, si legge, a quel Bret Easton Ellis che 10 anni prima aveva fatto “il botto” con Less than zero dal quale fu anche tratto un mediocre film con Roberto Downey Jr.

La vicenda, ovviamente tragica e quel giusto inverosimile, si svolge tutta o quasi in un piccolo ed isolato college del Vermont dove il protagonista Richard, un californiano squattrinato e di famiglia immeritevole, si lascia affascinare da un gruppetto di 5 ragazzi ricchi e “maledetti” che frequentano snobisticamente un unico corso di greco antico tenuto da un colto insegnante Julian, che si è costruito un eremo tutto suo e al di fuori dal resto del corpo insegnante.

Volendo sintetizzare un misto tra Harry Potter e L’attimo fuggente in salsa cinica e depravata, con il consueto spreco di droghe, alcolici, rapporti morbosi ed irrisolti e quant’altro serve di ingrediente a creare sapientemente l’intreccio che ad un certo punto inevitabilmente ti “tira dentro”.

Arte suprema della Tartt, quella della costruzione del diabolico intreccio, e già sperimentata in occasione del Cardellino, rispetto al quale, come giusto che sia, trattandosi, sia ben chiaro, di scrittrice che appone la propria “firma” su ogni riga che scrive, anche questo suo primo lavoro presenta alcune analogie.

C’è il delitto impunito (qui assai più grave), il protagonista che inizia un po’ spaesato ma poi si smalizia assai, c’è la appendice colta e ricercata, qui il greco antico laddove nel Cardellino era l’arte del restauro e che anche qui viene scoperta grazie all’anziano mentore, c’è l’amico affascinante e lucignolo che qui è il raffinato Herry che sostituisce il proletario Boris, c’è il senso di generazione perduta nel disfacimento di ogni sentimento e di ogni morale che come nel Cardellino suona parola vacua e fuori moda, c’è la figura femminile che seduce senza consumazione il protagonista, c’è un finale non all’altezza della parte centrale del libro e manca soprattutto anche qui ogni barlume di speranza nel destino dei giovani eroi, fatto che alla fine ce li fa pure risultare, nel loro orrore, simpatici.

Anche in Dio di illusioni la Tartt abbonda nella mole delle pagine, e quindi, credo volutamente, alterna parti più riuscite ad altre meno, ed anche qui l’incipit è faticoso ed il decollo arriva a premiare i resistenti, al punto che l’intero capitolo dei funerali di Bunny nel Connecticut non fatico a definirlo una delle pagine più straordinarie di letteratura americana che abbia mai letto in vita mia.

Come al termine del Cardellino la sensazione è quella di spossatezza come si fosse concluso un momento di vita e non solo la lettura un libro; voluta ricerca di facile consenso in una vagonata di autocompiacimento narcisistico della autrice ? Può darsi, poco importa alla fine della fiera, anzi alla fine di questo libro, perché la reazione è quella di precipitarsi in libreria ad acquistare il secondo, quello uscito 10 anni dopo Dio delle illusioni e 10 anni prima di Il Cardellino, e penso quasi con angoscia a chi invece li ha già letti tutti e tre e gli tocca di aspettare altri 10 anni.

Davide Steccanella

Pubblicità

Donna Tartt “Il cardellino”

tarttUna vera delusione, anche perché le prime 100 pagine sono decisamente belle.

Il tredicenne Theo Decker è convocato a scuola insieme alla madre per problemi disciplinari; madre e figlio sono in anticipo, scoppia un temporale e i due trovano rifugio in un museo, che ospita una mostra che la donna voleva vedere da tempo.

Il racconto della madre che parla al figlio dei quadri che vedono, comunicandogli il suo amore per l’arte figurativa (che è una costante del libro e forse la sua cosa più bella) è decisamente ben riuscito, come lo è il racconto di ciò che succede subito dopo; giustamente Lucia parla di pagine potenti e ben scritte.

Da questo punto in poi però il romanzo comincia costantemente a calare.

Di buono (o abbastanza buono) c’è l’inconsolabile rimpianto di Theo per la straordinaria madre e per la concatenazione di eventi grandi e piccoli che la hanno riguardata; il temporaneo soggiorno del ragazzo presso una famiglia amica, ricchissima quanto patologicamente infelice; il distacco di Theo presso il padre a Las Vegas; l’incontro con il luciferino Boris, adolescente sbandato e precocemente cresciuto.

Decisamente bella la figura di Hobie, appassionato e sublime restauratore di mobili antichi, e protettore di Theo.

I pregi finiscono qui, mentre incominciano i difetti che si fanno sempre più gravi, al punto da rendere il romanzo addirittura molesto.

Si vede bene che Tartt intendeva scrivere un’opera importante, un capolavoro. Non avendone i mezzi, avrebbe potuto e dovuto accontentarsi di proseguire e completare il buon inizio, ma l’ambizione l’ha malamente fregata.

Ne viene fuori un romanzo complessivamente disarticolato e involuto dove: a) non c’è nessuna continuità fra le vicende che scandiscono i 10 anni della narrata vita di Theo, che saltabecca fra le situazioni più disparate; b) il racconto è in molte parti poco credibile (per esempio l’amore di Theo per Pippa, che in fondo non sa neppure chi sia), come lo sono i personaggi (per esempio Boris, costruito, letterario e alla fine fasullo); c) per certi versi impera la monotonia: sarebbe interessante contare le volte in cui Theo è ubriaco, drogato, vomita, è in preda a lancinanti mal di testa, nausee  o altri malesseri vari; e questa sarebbe l’atmosfera maledetta? ; d) vi è una brusca svolta da romanzo gangster che lascia attoniti; e) si pencola fra uno stucchevole glamour e un altrettanto stucchevole pulp; e) manca un senso complessivo, al punto che se dovessi dire che cosa ho alla fin fine letto sarei in difficoltà.

Non ho potuto fare a meno di pensare, da un certo punto in poi, alla sinistra assonanza fra il Decker di questo romanzo e il   Dicker autore di “Quebert”, già recensito, peraltro di incomparabile bruttezza.

Premio Pulitzer incomprensibile, come le scappellate della critica nostrana (fra le quali un 10 e lode di un certo D’Orrico, che sospetto sia quello di cui ha parlato Traddles).

Poronga