Essere omosessuali negli anni ‘20 e ’30 del 900 era una faccenda parecchio complicata; tanto più, forse, in Giappone.
M. racconta il confuso e oscuro farsi largo delle sue pulsioni a partire dai primi anni dell’infanzia (qui i primi turbamenti che comprendono un San Sebastiano trafitto dalle frecce) fino all’età di 22, 23 anni. Parla della omosessualità come di una perversione o una malattia, racconta i suoi patetici tentativi/esperimenti di vivere un amore etero, si definisce invertito, e definisce la masturbazione, che per lunghi anni è il solo modo con cui dare sfogo alle sue fantasie (va detto, abbastanza particolari, perché legate a corpi maschili, pugnali, sangue che sgorga disegnando i muscoli), come “quella brutta abitudine”. La morte, per la quale M. ebbe sempre una forte fascinazione, è una costante presenza.
Una buona parte della vicenda si svolge in piena guerra mondiale, bombardamenti e morti compresi, ma all’io narrante sembra importare molto poco, al punto di dire “Per me che perdessimo o vincessimo la guerra faceva proprio lo stesso”.
Mi era stato detto che si trattava di un libro ostico, lacerante, di grande sofferenza, ma molto bello.
Onestamente a me non è piaciuto granché. L’ho trovato abbastanza piatto e poco coinvolgente, marcato da un singolare divario fra la forza e il coraggio dei contenuti (il libro è del 1958), e i modi scelti per raccontarli. Mi è sembrato tutto rarefatto, lontano. Chissà, forse dipende dalle sensibilità così diverse di occidentali e orientali, anche se ho letto libri di autori giapponesi che mi sono piaciuti molto.
Poronga