Miriam, una signora svedese di origine ebraica riceve in regalo, per il suo ottantacinquesimo compleanno, un bracciale di fattura zingara e pronuncia la frase che dà il titolo al libro. I parenti, un po’ sconcertati, pensano ad uno scherzo o un annebbiamento, ma la verità è che il bracciale ha provocato un’ondata di ricordi. Miriam, che in realtà si chiama Malika, ha vissuto per 68 anni con un segreto che non ha mai avuto la forza di rivelare a nessuno. Tutti sanno che ha vissuto l’Olocausto ed è sopravvissuta ad Auschwitz, ma tutti credono che sia un’ebrea. Invece è una rom, che per una strana coincidenza ha assunto l’identità di una compagna di sventura morta, provando così la terribile esperienza dei lager prima da rom e poi da ebrea – i nazisti trattavano se possibile un po’ peggio gli ebrei, ma gli altri prigionieri trattavano peggio i rom – e riesce miracolosamente a sopravvivere. Liberata e accolta in Svezia, senza nessun parente sopravvissuto né nella sua identità reale di Malika né in quella acquisita di Miriam, decide – ma forse il termine è improprio, diciamo che viene trascinata dagli eventi della vita – di continuare in una finzione che durerà per i successivi quasi settant’anni. Teniamo conto che alla liberazione, nel 1945, è solo una adolescente diciassettenne, e nella società svedese, che pure è mediamente tollerante e che accoglie con grande generosità i profughi ebrei – forse anche perché ha qualcosa da farsi perdonare – gli zingari sono comunque considerati la feccia, e Miriam sente questi giudizi razzisti sul suo popolo. Il tutto sfocia poi tre anni dopo, nel 1948, in episodi di violenza contro i campi nomadi, fatti poco conosciuti ma che questo libro ha anche il merito di ricordare. Come ha il merito di ricordare l’Olocausto del popolo rom, con mezzo milione di morti nei lager nazisti.