Remco Campert è uno scrittore e poeta olandese ottantacinquenne. Fino a pochi giorni fa non l’avevo mai sentito nominare. Adesso ho letto questo suo breve romanzo che mi è sembrato molto bello. Direi anzi che nella sua struttura è un libro perfetto: si apre con un mistero nella prima pagina, e si chiude con la soluzione nell’ultima, un colpo di scena sorprendente anche se, a posteriori, appare inevitabile. In mezzo, 150 pagine dense e scritte con grande intensità.
Il protagonista, Richard, è uno scrittore olandese di medio successo che va a Parigi per la presentazione di un suo libro di brevi prose poetiche, dal titolo emblematico ” L’arte di dimenticare “. La memoria ha naturalmente a che fare col mistero sopra accennato, e che cosa sia l’arte di dimenticare per Richard ce lo dice Campert: ” Dimenticare non era un’arte, ma un difetto. O un pavido rifugiarsi nel nulla. La smania di non conservare niente, di ricominciare ogni volta daccapo senza gravami, alla lunga avrebbe finito per nuocergli “. Ma a proposito di titoli, Campert usa l’ironia nel titolo del proprio libro: l’editore francese di Richard vuole convincerlo a scrivere un libro dal titolo più accattivante, Un amore ad Amsterdam, e intanto gli presenta un becero scrittore inglese che ha scritto Un amore a Hong Kong. Ecco la genesi del titolo Un amore a Parigi che, unito ad una copertina un po’ frivola, potrebbe far pensare a tutt’altro tipo di libro.
Richard a Parigi aveva vissuto molti anni prima, ventenne, un breve periodo bohémien condividendo un piccolo monolocale con un amico pittore, che ha poi avuto molto successo anche perché ha dimostrato maggior tenacia, restando a Parigi. Richard invece dopo un anno ha gettato la spugna ed è tornato in Olanda. Oltre al mancato successo, ha contribuito anche il disgusto per un rapporto omosessuale quasi mercenario, da lui accettato più per indolenza che per convinzione. Adesso i due amici si ritrovano, ma il loro rapporto è diventato difficile e formale. Ripensando a tutto quello che è successo nel frattempo, abbiamo il quadro di una vita dominata dall’insoddisfazione. Richard è un uomo deluso. Il rapporto con l’amico non si può ricucire, la vita dei due ha preso strade diverse. Il rapporto col padre è stato conflittuale ma senza mai risolversi – un padre egocentrico, attore come nella vita reale era attrice la madre di Campert, mentre il padre era poeta come lui – rapporti sessuali tanti ma sentimentali pochi e sempre superficiali, le soddisfazioni artistiche scarse. Un matrimonio rattristato dall’impossibilità di avere figli con una donna tutt’altro che banale – sarebbe banale se lei fosse banale – ma neppure lei lo trascina fuori da una vita che sente grigia e monotona. Voglio mettere l’accento su questo punto, perché credo che molti scrittori percorrerebbero la strada più facile di dare al loro personaggio un matrimonio insignificante ma invece la questione è più complessa; e del resto anche altri aspetti della vita di Richard non sono di per sé così insoddisfacenti. Anche se certamente non vincerà il Nobel fa tutto sommato una vita interessante ma il punto è proprio questo, e il punto focale del libro sta nel descrivere la monotonia e l’inappagamento di una vita che ha invece tutti i presupposti per essere una vita felice. In altri tempi e in altri contesti si sarebbe parlato di malessere dell’anima.
Si scivola così, senza possibilità di vincere l’insoddisfazione, verso quello che è, almeno per me, il colpo di scena finale, seppure, come detto, inevitabile. E anche nel rendere inaspettato qualcosa che col senno di poi si capisce essere inevitabile sta il marchio del grande scrittore.
Traddles