Ho conosciuto sándor márai attraverso quel piccolo capolavoro che è “la recita di bolzano”, il racconto dell’ultima avventura galante di giacomo casanova, in fuga dalle carceri di venezia, un piccolo romanzo geniale nella perfezione dell’analisi dei meccanismi che governano la seduzione e il sentimento amoroso.
solo poi, ho letto “ le braci” e “l’eredità di eszter” che, rispetto alla felicità della “recita”, mi sono parsi minori. credo di non essere riuscita a coglierne l’idea, o l’emozione centrale e, malgrado la bellezza della prosa intensa ed elegante di márai, non c’è stato vero ‘incontro’.
di recente, invece, mi è capitato di trovare su una bancarella un altro suo libro, “il sangue di san gennaro”, un romanzo denso, tormentato, stranamente criptico, ma oltremodo toccante.
tutta la prima parte è dedicata alla città, descritta attraverso gli occhi di due esuli che vi giungono all’inizio degli anni cinquanta e vi rimangono per qualche tempo, in attesa della partenza per una terra lontana che li accoglierà ponendo fine al loro vagare.
ne viene fuori una napoli povera ma dignitosa, disgraziata e malconcia eppure non priva di allegria, che certo non brilla per originalità, malgrado la tersa luminosità di alcuni passaggi:
“E sono sempre belli (i bambini). Hanno occhi che splendono, come se fossero pieni di luce, di una luce oscura. E sono sempre seri, di una serietà quasi ispirata, come è tipico dei poveri.”
ma poi, nella seconda e terza parte, il colore locale cede il passo a un tono più cupo e interiorizzato, quasi profetico.
dall’animata coralità dei pittoreschi personaggi che si muovono per i vicoli della città si passa alle taciturne giornate d’attesa del tutto prive di eventi che i due stranieri, in balia di una burocrazia ostile e prevaricatrice, trascorrono in casa, quasi prigionieri, immobili davanti al mare di napoli.
e mentre la prosa si fa man mano più densa, labirintica, straziante nella sua insistita lentezza, i due stranieri sembrano quasi perdere via via di consistenza e realtà, trasformarsi in creature afasiche e vagamente deliranti.
nei vicoli e nelle botteghe di Posillipo si comincia a dire che quell’uomo di cui non si sa nulla, quell’uomo senza nome senza una voce, disposto ad ascoltare i dolori di tutti, è un santo. in città comincia a spargersi la voce che presto accadrà un miracolo.
difficile dire se sia il miracolo tanto atteso quanto accade nel finale, un finale inquietante, che lascia il lettore confuso e dolente, incapace di rispondere alle domande che a lungo, anche dopo avere chiuso le pagine del libro, continueranno a tormentarlo:
chi è quello straniero dagli occhi fondi e bui che ascolta chiunque vada a bussare alla sua porta?
può davvero un uomo farsi carico del dolore degli uomini, di tutti gli uomini, trasformarlo, renderlo più lieve, nella vertigine di un volo sacrificale?
insomma, ci si trova costretti a chiedersi, ci può essere spazio, in questo nostro mondo, per il miracolo?
la signora nilsson
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