Jacob e Julia hanno da poco passato la quarantina. Esponenti della upper class americana ebrea (lui è uno sceneggiatore e scrittore di un certo successo, lei una architetta di talento, per quanto penalizzata dalla famiglia) hanno tre peculiari e precoci figli maschi dai 13 anni in giù, un cane che nell’economia familiare non è meno importante, e vivono a Washington in una bella casa.
Entrambi intelligenti, arguti e spiritosi, si vogliono sicuramente bene, e molto, e vivono una vita più che buona, almeno apparentemente. Certo, gli ardori sessuali non sono più quelli di un tempo, ma c’è intesa e scambio in un ménage familiare tutt’altro che monotono.
A un certo punto Julia trova un cellulare e con l’aiuto del figlio maggiore Sam, nativo digitale, riesce a sbloccarlo: apprende così che il marito scambia messaggi, che definire “hot” è un eufemismo, con una sconosciuta signora.
Questo apre una crisi che viene raccontata nell’intero romanzo. La storia si intreccia con le eterne problematiche dell’essere ebrei: la forte identità (“Con ingegnosità, forza e determinazione abbiamo fatto ciò che gli ebrei hanno sempre fatto: siamo sopravvissuti”), l’irriducibile diversità, le relazioni con gli altri, il cosmico pessimismo (“… gli era rimasta la consapevolezza che tutto quello che è successo una volta può succedere di nuovo, è probabile che succeda di nuovo, deve succedere di nuovo, succederà.”), un timore del futuro che non si riesce mai completamente a superare (“Siamo un popolo traumatizzato”), l’irrisolto rapporto con Israele e con gli israeliani, il senso di accerchiamento (“ Se la nostra storia ci ha insegnato qualcosa, è che essere forti è più importante che avere ragione”).
A un certo punto S.F. immagina anche uno scontro finale fra Israele e tutti gli Stati arabi e musulmani che genera un discorso televisivo, in effetti piuttosto emozionante, col quale il primo ministro israeliano chiama alla guerra tutti gli ebrei del mondo, e a cui Jacob risponde (donde, credo, il titolo “Eccomi” che riprende la risposta di Abramo alla chiamata di Dio).
Quella narrata tuttavia è una storia fondamentalmente privata, seppur saldamente collocata nel contesto generale di cosa vuol dire, cosa potentemente implica, ancor oggi, essere ebrei (anche se conosco ebrei che non mi sembrano così condizionati dalla loro origine).
S.F. è uno scrittore decisamente ottimo, e “Eccomi” è complessivamente superiore al bel romanzo, credo d’esordio, “Ogni cosa è illuminata”, anche se non tocca il picco che quest’ultimo raggiunge quando racconta una terribile notte in cui gli ebrei vengono trucidati dalle SS (a proposito: io capisco la condizione degli ebrei, però tutta questa “ebreità” che monopolizza i libri di S.F. trovo che alla lunga stufi e soprattutto rischi di erigere steccati anziché abbatterli).
Quello che però mi ha colpito negativamente del romanzo è che tutti i suoi protagonisti sono persone maledettamente complicate, quasi indecifrabili, incapaci di vivere sentimenti semplici e naturali a partire dall’amore, anche quello per i figli (“… era troppo amore per essere felici. Amavo il mio bambino al di là della mia capacità di amare, ma non amavo l’amore. Perché era opprimente. Perché era necessariamente crudele”).
Niente è mai chiaro, tutto è come minimo ambivalente, al punto che l’unico sentimento semplice e naturale è quello che i membri della famiglia nutrono per il cane Argo.
“Siamo individui infranti, che si impegnano in quella che sarà un’unione infranta, in un mondo infranto”. Brrrrrr….
Ciò detto il romanzo è tutt’altro che un monotono piagnisteo; per esempio i dialoghi sono arguti, brillanti, talora esilaranti, e spesso vi sono considerazioni quantomeno ficcanti, come questa:
“Alcune religioni puntano sulla pace interiore, altre sul rifiuto del peccato, altre sulla lode. L’ebraismo punta sull’intelligenza sotto il profilo testuale, rituale e culturale. Tutto è studio, tutto è preparazione, un perenne riempire la cassetta degli attrezzi mentale finché non si è preparati per qualunque situazione (e la cassetta troppo pesante per essere trasportata). Gli ebrei costituiscono lo 0,2 per cento della popolazione mondiale ma hanno ricevuto il 22 per cento dei premi Nobel – il 24 per cento se si escludono i Nobel per la pace. E non essendoci un Nobel per l’essere sterminati, per una decina d’anni gli ebrei non ebbero molte possibilità, quindi la percentuale effettiva è ancora più alta. Perché? Non perché gli ebrei siano più intelligenti degli altri; è perché gli ebrei puntano sul genere di cose che vengono premiate a Stoccolma. Gli ebrei si allenano per il Nobel da migliaia di anni. Ma se ci fossero dei premi Nobel per la soddisfazione, per il senso di sicurezza, per la capacità di lasciarsi andare, quel 22 per cento -24 senza la Pace- avrebbe bisogno di un paracadute”.
Poronga