Due sedie, una donna vestita da uomo e un gatto che guardano il mare: se non fossi stato attratto da una copertina bellissima, forse non avrei mai nemmeno saputo dell’esistenza di questo libro e del suo autore. Andare in libreria invece di ordinare i libri su internet offre ancora dei vantaggi, e in libreria ho potuto leggere le prime pagine e capire che valeva la pena di andare avanti nella lettura.
Il protagonista è l’unico passeggero su un mercantile sudcoreano diretto in Brasile. E’ il 1954, la guerra di Corea è finita e Yohan – non è il suo vero nome, glielo hanno dato gli Americani, ma è l’unico con cui verrà indicato per tutto il libro – prigioniero nordcoreano ha rifiutato il rimpatrio, preferendo restare nell’ospedale americano a fare vari lavoretti. Di lui sappiamo solo che ha 25 anni, nulla ci viene detto sul motivo per cui, unico nordcoreano di tutto il campo, non vuole tornare in patria. Non sappiamo nulla della sua vita, della sua famiglia, niente di niente, solo quel nome che non è il suo. Gli Americani lasciano la Corea, e di Yohan si occupano le Nazioni Unite, che gli trovano una sistemazione e un lavoro in Brasile, presso un sarto giapponese. Di quest’ultimo, e di come sia finito in Brasile, sappiamo ancor meno: solo ad un certo punto, di sfuggita, viene fatto accenno a Nagasaki, che ci fa pensare ad una famiglia annientata dall’esplosione atomica, ma nulla di più ci viene detto. Soltanto anni dopo la sua morte, Yohan viene ad apprendere casualmente, da una foto, che il sarto in realtà ai tempi della Seconda Guerra Mondiale era un medico. Nel corso del libro apprendiamo qualcosa di più sulla vita di Yohan, ma sempre in modo molto parco: figlio unico, la madre muore dandolo alla luce, il padre già anziano, contadino ma con la passione per l’arte del vasaio, molto taciturno, muore quando Yohan ha 16 anni. Solo dopo capirà che fra lui e il padre, nonostante le poche parole, c’era un legame intenso. Poi l’arrivo dei Sovietici, il lavoro coatto, l’arruolamento, la guerra, la prigionia. Qui ritrova un suo paesano con cui stringe amicizia; ma questo, avendo perso la vista, sceglie di togliersi la vita.
Date queste premesse, non ci vuole George Steiner per capire che questo è un libro sulla solitudine. Libro sulla solitudine, ma non sulla tristezza. Sulla solitudine come condizione esistenziale umana che lascia comunque spazio ad una vita degna di essere vissuta. Anche nella sua nuova vita Yohan ha pochissimi rapporti: a parte il sarto, il custode di una chiesa e due ragazzi-mendicanti che appaiono e scompaiono in modo imprevedibile e un po’ misterioso. Ciò nonostante si integra bene nel suo nuovo ambiente e nel suo ruolo professionale. Il rapporto fra il maestro e l’apprendista è bellissimo: parlano poco, ma imparano a conoscersi e a stimarsi dalle cose che fanno, dai comportamenti che tengono con le altre persone. Il lavoro in sartoria è quieto, ma non noioso e alienante, ha la serena dignità di tutti i lavori fatti con l’uso delle mani.
Il sarto muore, e così pure l’ultimo contatto di Yohan con la sua terra, un marinaio coreano che passa periodicamente da lì. Eppure, alla fine del libro ci viene fatto capire che la solitudine che ha segnato tutta la vita di Yohan, che è comunque serena e non triste, può forse avere fine.
L’editore italiano ha dato al libro una bellissima copertina – diversa e per me migliore di quella originale – ma ha cambiato il titolo – qui invece è più bello quello inglese, Snow Hunters e c’è un motivo ma è lungo da spiegare – ma è piuttosto parco di notizie su Yoon, che sono andato a cercare su internet. Ho così saputo che ha 33 anni, è al suo primo romanzo e soprattutto una cosa mi ha colpito: la prima stesura era lunga quasi il triplo di quella finale. Tagliare è una delle cose più difficili da fare per uno scrittore, ma Yoon c’è riuscito benissimo e il risultato è una prosa asciutta, precisa, essenziale, senza una parola di troppo. Proprio per questa densità è una lettura impegnativa, ma dà soddisfazione.
Traddles