Ignorando che “2666 “ si compone di due volumi, ho iniziato leggendo il secondo; un po’ come è accaduto a un austero cinema d’essai, che l’anno scorso per una settimana intera ha proiettato il film “Tree of life” di Malick invertendo primo e secondo tempo senza che nessuno si sia accorto di niente …
Sono però stato fortunato, in primo luogo perché leggere i due volumi in esatta consecuzione non mi è sembrato poi così fondamentale (e qui c’entra parecchio la particolarità di Bolaňo), e poi perché il secondo volume è molto più bello del primo, che ne costituisce quasi una preparazione, e davvero non so se, iniziando col primo volume, avrei poi letto il secondo.
L’opera si compone di cinque sezioni solo parzialmente collegate fra loro, e per di più da un filo che in certi punti si fa sottilissimo; e costituisce già di per sé elemento di curiosità e sorpresa vedere come B. sia riuscito a concepire l’architettura di un’opera che complessivamente supera le 1.000 pagine in un modo così singolare e insolito.
La prima parte racconta di quattro critici appassionati di un autore, Benno von Arcimboldi, e dei legami che fra loro si instaurano e delle esperienze che essi vivono rincorrendo il loro scrittore-mito; la seconda parte è dedicata a un singolare professore di letteratura cileno che i tre critici incontrano durante un viaggio in Messico alla ricerca di Arcimboldi; protagonista della terza è un giornalista che viene mandato in una città messicana al confine con gli USA, Santa Teresa, per seguire un incontro di boxe (sport di cui non sa nulla) e che lì incontra una serie di persone tra cui Rosa, la bellissima figlia di Amalfitano; la quarta parte racconta una serie impressionante di delitti di donne giovani e giovanissime che avviene a Santa Teresa; nella quinta parte si racconta la storia di Arcimboldi il cui nipote, Klaus, è detenuto in Messico con l’accusa di essere l’autore degli omicidi di cui sopra.
B. è uno scrittore unico nel suo genere; enigmatico, sembra un Borges sonnambulo, ti piace e non sai bene il perché. Singolare è il contrasto fra la sua scrittura nitida e precisa e il suo sguardo erratico che si sofferma quasi a caso su piccoli e talora sorprendenti particolari del tutto indipendentemente -almeno così sembra- dalla loro importanza.
E’ forse lo stesso B., alla fine del secondo libro, a dare la chiave di quello che lui fa:
“Lo stile era strano, la scrittura era chiara e a volte persino trasparente ma il modo in cui si susseguivano le storie non portava da nessuna parte…”.
Forse è vero che non è tanto importante quello che B. scrive quanto come lo scrive (indovinate chi l’ha detto?)
Non manca però una spropositata ricchezza di contenuti, grandi e minimi, che si dispongono attraverso svolte narrative repentine e brusche. Una specie di otto volante che effettivamente non porta da nessuna parte e che a un certo punto si arresta, e il libro finisce, e tu rimani lì, a guardarlo, come gli scimmioni di “Odissea nello spazio” guardano il monolite nero.
In tutto ciò B. scrive cose bellissime e misteriose. Per esempio:
“ … questa rassegnazione non era ciò che si definisce comunemente rassegnazione, e neppure pazienza o spirito di adattamento, ma piuttosto uno stato di mansuetudine, un’umiltà squisita e incomprensibile che lo faceva piangere del tutto a sproposito e in cui la sua immagine, quello che Morini percepiva di Morini, si diluiva pian piano in modo graduale e inarrestabile, come un fiume che smette di essere fiume o come un albero che brucia all’orizzonte senza sapere che sta bruciando”.
Poronga