Come dice il nostro Poronga, non si può leggere una storia che non ci ha conquistato. È nostro diritto di lettori ribellarci alla schiavitù del libro-padrone: solo perché ha ottenuto un posto sul nostro comodino (o forse di questa stagione dovrei dire ‘accanto alla nostra sedia sdraio’), ciò non significa che possa mantenerlo immeritatamente.
E così… una sfilza di libri cominciati e abbandonati dopo un assaggio fuggente.
Tra questi, La sposa giovane di Baricco, che stupisce con una decina di pagine che ricordano Tomasi di Lampedusa e una lingua ricca e densa, e presto scadono in una parodia moderna e mediocre di quelle atmosfere. La delusione è stata sufficiente per sentirmi defraudata, tradita dallo scrittore serpente e non saprò mai come va a finire la storia.
Lo stesso vale per Le correzioni di Franzen, che dopo una cinquantina di pagine (lette d’un fiato) mi è parso l’ennesimo romanzo americano all’americana: nessuna originalità nella storia, niente di niente che possa incuriosirmi nella scrittura. Non ne ho più voglia.
Ma ci sono, per fortuna, anche i libri che ti fanno venire una voglia matta di cantarne le lodi.
Primo fra tutti Presenze animali di James Hillman: un saggio che sprizza scintille, un forziere di intuizioni geniali e di empatia emotiva. Chi ama gli animali (Traddles, ci sei?) non se lo perda.
E l’ennesimo Stefansson. Lo so che si è già parlato e riparlato di lui, ma che ci posso fare se è uno scrittore che mi incanta, mi suggestiona, mi strazia e mi fa sorridere come mai mi è successo? Ha la forza narrativa tragica, e comica a volte, del più grande Dickens e la condensata potenza e la liricità di Leopardi: meraviglioso. La tristezza degli angeli andrebbe letto anche solo per non perdersi la grazia candida e dolcissima con cui ‘il ragazzo’ scopre la sensualità, e per scoprire con quale intensità un uomo che si mette a fare un pupazzo di neve possa esprimere la muta tragicità dei sentimenti che ci legano alla vita e ci accompagnano nel momento in cui decidiamo di arrenderci alla morte.
E poi la Munro, quella di Troppa felicità: appena cominciata, ma mi ha fulminato con il primo racconto. Spaventosa la storia di Doree, di una drammaticità quasi senza pari, viene narrata con una asciuttezza scarna che la fa assurgere a metafora del vivere umano e del dolore che non si può ingoiare, che ti rimane in bocca come un grumo di piombo e sangue indigesto e venefico. E che solo il sangue può sciogliere.
In mezzo a tutto questo ci sta Kent Haruf, Benedizione. Haruf scrive bene, almeno: bellissima la scena di tre donne e una bambina che la torrida estate di un’infuocata prateria americana spinge a bagnarsi nude in una cisterna scoprendo così l’intimità attraverso quella comunione dei corpi, tanto diversi, uno color del miele e prospero tanto quanto l’altro è piatto e acerbo, o ancora segnato dalle rughe e dalla pelle vizza, ma tutti espressione di una medesima femminilità e umanità.
Ma a conti fatti sono rimasta delusa. Non manca una certa serena dolcezza, è vero, nella pacata accettazione con cui viene rappresentato il morire, quel momento che arriva per tutti, accanto al letto di un padre morente prima, oppure distesi su quello stesso letto noi stessi quando sarà il nostro turno di affrontare la malattia, la decrepitezza, la fine.
Però, a me è parso, manca la nuda, scabra manata che sempre, in fondo, accompagna la morte. E senza, è come un libro a metà.
la signora nilsson