“Open” di Andre Agassi e “Kafka sulla spiaggia” di Murakami Haruki.
Due libri agli opposti, scritti con stili diversi. Il primo racconta, con straordinaria e sorprendente lucidità, la vita, gli amori, i successi e le sconfitte di uno sportivo americano. L’altro, attraverso una narrazione metaforica e surreale, la storia di un ragazzo di 15 anni (“Tamura”), maturo come un adulto, e di un vecchio (“Nakata”), con il cervello di un bambino, i cui destini sono (inevitabilmente) destinati (pur non incontrandosi mai) ad incrociarsi.
Nonostante le apparenze i due libri hanno tantissimo in comune.
Innanzitutto sono entrambi scritti molto bene – come spesso accade, infatti, si possono raggiungere risultati simili precorrendo strade completamente diverse – e, quindi, vale certamente la pena leggerli.
Ma a parte questa annotazione di carattere generale, sono davvero sorprendenti le somiglianze.
Per cominciare, il bambino Agassi ed il bambino Tamura del libro di Murakami sono entrambi soggiogati dalla figura paterna.
Il papà di Agassi è un padre tiranno che costringe il giovane figlio a lunghissimi, estenuanti allenamenti: “Se colpisci 2500 palle al giorno, cioè 17.500 la settimana, cioè un milione di palle all’anno, non potrai che diventare il numero uno”. Questo è quanto ripeteva ad Agassi bambino il padre che aveva costruito per lui una macchina (“il drago”) sputapalle con la quale lo costringeva ad allenarsi nel cortile di casa. “Ucciderai tuo padre e giacerai con tua madre e tua sorella” è la frase (profezia Edipica) che il padre di Tamura, uno scultore geniale e demoniaco, rivolge al figlio.
Dunque, due figli in fuga dal padre.
Entrambi i libri poi, almeno a mio avviso, sono legati da un filo conduttore, perché affrontano (come detto, in modo assolutamente differente, ma convergente) la condizione più comune del genere umano: la solitudine.
La solitudine del bambino/tennista di successo e la solitudine che pervade e caratterizza tutti i personaggi dei libri di Murakami, sempre in fuga da qualcosa ed alla ricerca di una redenzione a volte impossibile da raggiungere.
Agassi passa l’infanzia a giocare con il suo “drago sputapalle” ed il resto della vita nella solitudine assoluta che solo una partita di tennis a certi livelli può farti provare. Momenti nei quali il tempo è dilatato e tutti i tuoi fantasmi sono lì, pronti ad aggredirti e farti cadere.
Il bambino del libro di Murakami, a soli 15 anni, dopo aver ascoltato la profezia del padre, scappa di casa e passa le giornate chiuso in una piccola biblioteca privata, posta in piccolo paese, a leggere libri. Il vecchio (Nakata) rimasto un po’ indietro a seguito di un misterioso incidente avuto da bambino (non sa leggere né scrivere) non comunica – o comunica poco – col genere umano ma ha sviluppato l’incredibile capacità di parlare con i gatti (animali molto cari a Murakami che, paraltro, molto amano la solitudine). Insomma, tre diversi (e allo stesso tempo simili) percorsi di lotta e di emarginazione. Di cadute e di rinascite. Tre solitudini abilmente raccontate da due autori che più distanti è difficile immaginare.
Perché alla fine, nonostante la distanza, i personaggi dei due libri (come forse tutti noi) sono semplicemente alla ricerca di qualcosa che renda più sopportabile il passato e meno spaventoso il futuro. E così, come ha avuto modo di dire, con ineguagliabile capacità, Francis Scott Fitzgerald, nel “Grande Gatsby”: “continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato”.
Antonio