Fernando Pessoa “Una cena molto originale”

PessoaParlando del Libro dell’inquietudine, Poronga mi ha stimolato a ripescare questo breve racconto che si impolverava da tempo fra i libri da leggere. Pessoa lo scrisse a soli 19 anni pubblicandolo con uno dei suoi tanti pseudonimi. Lo scrisse in inglese che allora e probabilmente per tutta la vita era la sua prima lingua, essendo cresciuto e avendo fatto le scuole sino a 16 anni in Sudafrica.

Qui vorrei aprire una parentesi sugli scrittori che, come Pessoa per il portoghese, scrivono splendidamente in una lingua che non è la loro lingua madre, proprio perché non lo è, e sono quindi costretti ad una particolare attenzione alle questioni lessicali che chi padroneggia una lingua sin dall’infanzia non deve prestare. Sembra paradossale, ma a volte un handicap si può tramutare in un vantaggio; purché ovviamente ci siano talento e dedizione. A chi sto pensando? Naturalmente il caso più noto è Conrad, nato russo e russofono e poi capace di scrivere in un inglese sontuoso; Nabokov addirittura ha scritto per la prima parte della sua vita in russo e poi in inglese; Kundera ha fatto altrettanto con ceco e francese. Ma per restare in casa nostra, lo stesso si può dire di Manzoni, per il quale l’italiano non era affatto la lingua madre – neppure la seconda, credo la terza – e di molti scrittori regionali cresciuti parlando dialetto e poi faticosamente impratichitisi dell’italiano, che per me è il motivo per cui molti degli scrittori che usano meglio la lingua italiana sono siciliani. E per finire, a proposito di Pessoa, non si può non ricordare il caso di Tabucchi, che si innamorò talmente di Pessoa e della sua lingua, da scrivere almeno un libro – vado a memoria, ma forse anche più di uno – direttamente in portoghese.

Torniamo a Una cena molto originale. Non posso dire molto, perché svelerei il segreto del racconto. La cena è organizzata dal buffonesco ma inquietante – anche qui o per meglio dire già qui l’inquietudine! – presidente di una bizzarra e improbabile Società Gastronomica, il genere è fra il noir e l’ horror ma con venature psicologiche di qualità. Ci sono anche dei tratti di ingenuità – dimenticavo: nella miglior tradizione di Walt Disney, che pure era appena nato, il presidente-gastronomo si chiama Prosit (!) – del resto ricordiamo che è stato scritto da uno che in termini odierni era ancora un teen-ager; ma chi è interessato a Pessoa lo leggerà con piacere. E comunque lo leggerete in mezz’ora o poco più, e non avrete buttato via il vostro tempo.

Traddles

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Fernando Pessoa “Il libro dell’inquietudine”

PessoaNon ho mai letto un libro paragonabile a questo.

Innanzitutto perché si tratta di un libro ipotetico: Pessoa lasciò un mazzo di fogli sciolti, spesso scritti sui materiali di fortuna (buste, pagine di taccuini, annotazioni fatte a margine di altri scritti), senza nessun ordine, e con rilevanti, e spesso irrisolti, problemi di decifrazione.

La curatrice dell’edizione che io ho letto (M.J de Lancastre per Feltrinelli) lo paragona a un mazzo di carte suscettibile di essere letto in infinite combinazioni.

La fascinazione di questo diario così singolare è poi accresciuta dal suo ineffabile contenuto.

Bernardo Soares, l’alter ego di Pessoa, è un modesto contabile che guarda la vita da spettatore. Con le sue annotazioni, raramente più lunghe di una pagina , esprime il timore e l’angoscia per la vita quotidiana (“è meglio scrivere che osar vivere”), il senso di fallimento e di inutilità della propria esistenza e il tedio che la accompagna (“non appartengo a niente, non desidero niente, non sono niente… non so se  sono felice o infelice, né me ne importa”), che solo il vagheggiare, puramente teorico, di un viaggio esotico riesce talvolta a mitigare.

La solitudine, il dubbio labirintico, la marginalità, il senso di impotenza, connotano una condizione esistenziale quasi insostenibile (“Vivo sempre nel presente. Non conosco il futuro. Non ho più il passato. L’uno mi pesa come la possibilità di tutto, l’altro come la realtà di nulla. Non ho speranze né nostalgie“), che però talvolta si apre all’incanto: ad esempio quando Soares/Pessoa diventa osservatore, tanto insolito quanto profondo, del cielo, del giorno, delle stagioni, della città (Lisbona).

È un libro frutto di profonde sofferenze, ma che pure, senza esse, non sarebbe la miniera di quelle perle, talora spiazzanti, spesso disarmanti, che è. Spetta però al lettore ricercarle con impegno, dedizione e fatica (almeno così per me è stato).

Scelgo con molta difficoltà qualche citazione, col rimpianto di tante altre:

Un raggio di sole, una nuvola il cui passaggio è rivelato da un’improvvisa ombra, una brezza che si leva, il silenzio che segue quando essa cessa, qualche volto, qualche voce, il riso casuale fra le voci che parlano: e poi la notte nella quale emergono senza senso i geroglifici infranti delle stelle“.

Lo svegliarsi di una città, che avvenga con la nebbia o altrimenti, per me è sempre più commovente dello spuntare del giorno in campagna. Ci sono molte più cose che tornano alla vita, ci sono molte più cose da aspettarsi quando il sole, invece di limitarsi a indorare (prima di luce oscura, poi di luce umida, infine di oro luminoso) i prati, le sporgenze degli arbusti, le palme delle mani delle foglie, moltiplica i suoi possibili effetti sulle finestre, sui muri, sui tetti […]. Un’aurora in campagna mi fa star bene; una aurora in città mi fa star bene e male, e perciò mi fa star meglio. Sì, perché la maggiore speranza che mi arreca possiede, come tutte le speranze, il sapore lontano e nostalgico di non essere realtà. Un mattino in campagna esiste; un mattino in città promette; il primo fa vivere; il secondo fa pensare. E io sentirò sempre, come i grandi maledetti, che è meglio pensare che vivere“.

Dalla vita non voglio altro che sentirla perdersi in queste sere impreviste, al suono di questi bambini estranei che giocano in questi giardini sbarrati dalla malinconia delle strade che li circondano, incorniciati, oltre che dai rami alti degli alberi, dal vecchio cielo dove le stelle ricominciano”.

O ancora:

Stanco, chiudo le imposte delle finestre, escludo il mondo e per un momento posseggo la libertà. Domani sarò di nuovo schiavo; ma ora, solo, senza bisogno di nessuno, con l’unico timore che una voce o una presenza vengano a interrompermi, ho la mia piccola libertà, i miei momenti eccelsi. Seduto su questa sedia, dimentico la vita che mi opprime. E mi addolora soltanto il fatto che essa mi abbia addolorato”.

Oltre a questi brani di infinita malinconia e dolcezza, mi piace ricordare anche la profonda capacità introspettiva e la sopraffina originalità ed eleganza con cui viene espressa.

Per esempio ecco come Pessoa descrive la convalescenza da una malattia:

La stanchezza è piacevole, e ciò fa un po’ male. Ci si sente leggermente appartati dalla vita, anche se dentro di essa, come sulla terrazza della casa del vivere. Si è contemplativi, ma non si pensa, si provano sensazioni senza un’emozione definibile. La volontà riposa perché non abbiamo bisogno“.

Chi ho messo più di un anno a leggere questo libro, in fondo abbastanza breve: non più di due-tre pagine alla volta, con lunghi intervalli. Ma sono sicuro che lo ricorderò come una delle più belle esperienze letterarie della mia vita.

Poronga

P.S.: eccellente prefazione di Antonio Tabucchi.