Téa Obreth “L’amante della tigre”

teaRitrovare il bandolo della memoria per ricostruire fatti e circostanze in cui il nonno è morto, così lontano da casa, in un paesino oltre confine senza che nessuno sappia perché ci sia andato.
Questo il compito di Natalia, giovane medico di un paese della ex Jugoslavia, forse la stessa Serbia, mai nominata nel romanzo, ma rintracciabile nelle origini di Tèa Obreht, l’autrice de “L’amante della tigre”.
Siamo ai tempi della guerra nei Balcani, dopo lo spezzatino della Jugoslavia, il conflitto più folle, inaudito e lacerante della nostra storia recente, e di cui sappiamo quanto l’Europa, l’Occidente  e i baschi blu debbano vergognarsi. Non parla, il libro, di chi ha ragione e chi torto in quella guerra che diventa guerra civile, piuttosto ne registra, lungo il viaggio di Natalia, le rovine che ha provocato sui civili, spezzando le famiglie, spargendo miseria e terrore, allontanando tutti, gli uni dagli altri, e cita più volte la moltiplicazione dei confini, anomala anche quella, che non fa che provocare sradicamento, perdita di identità, dove la lingua, i cognomi, la religione, non contribuiscono a creare appartenenza, ma solo una grande confusione.
Ecco dunque che ritrovare la memoria degli eventi diventa necessità per continuare ad esistere.
Parallelamente alla ricerca delle circostanze e delle motivazioni dell’ultimo viaggio del nonno, si raccontano altre storie, anch’esse oscure, complesse, non scritte, dove solo la ricerca delle persone che le hanno vissute può definirle e chiarirle. Una è la storia del bizzarrissimo Gavran Gailè, l’uomo che non muore, l’altra quella della moglie della tigre (chissà perché diventata amante nel titolo italiano!), storia della tigre Galina che, scappata dallo zoo della Città bombardata, si aggira nelle montagne seducendo alcuni, spaventandone molti altri, incarnandosi forse in una giovane donna muta.
Sono storie fantastiche e quasi ultraterrene, metafisiche, sovrannaturali, raccontate con talento e dialoghi vivaci che portano movimento e dinamicità alla trama personale.
Fanno pensare a Maurizio Maggiani e ai suoi personaggi guarda caso inseriti nello stesso territorio, in “Il viaggiatore notturno”, come la Perfetta, la prostituta dell’Hoggar, l’orsa Amapola. Quasi che scrivere di quei Paesi dell’est porti ad evocare racconti incredibili e quasi mitologici. E si collocano anche nel filone di Jonathan Safran Foer e la sua ricerca dell’identità famigliare nel suo “Ogni cosa è illuminata”.
Una manna per il lettore, che gode appieno della fantasia dello scrittore. Colpisce il fatto che si tratti di un’opera prima, scritta a venticinque anni, da una ragazza venuta via bambina da quei luoghi. Per giunta, pare che il libro sia l’esito di un corso di scrittura creativa alla Cornell University nel 2010. Strano debutto per una scrittrice che nel 2011 ha vinto  l’Orange Prize e poi, nient’altro, nessun altro libro, almeno nulla di consistente.
Lo consiglio, comunque, a tutti gli Asinisti che credono ci siano ancora storie da raccontare.
Ayelet

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