Edmund de Waal è discendente di una famiglia di mercanti ebrei originaria di Odessa, gli Ephrussi, che nell’ottocento si trasferirono a Parigi affiancando e gradatamente sostituendo alla loro originaria attività di commercianti di granaglie quella di banchieri di importanza europea.
Il capostipite della famiglia “francese”, Charles Ephrussi, era uomo profondamente amante dell’arte, che suddivise questa passione in due filoni nati pressoché contemporaneamente: la pittura impressionista e lo “japonisme”, ossia il gusto per l’arte giapponese, che arrivò in Francia quasi clandestinamente, e poi in misura imperante, sotto forma di lacche e altri oggetti, fra i quali anche i netsuke, piccole sculture finemente lavorate che gli uomini utilizzavano per fissare borse portaoggetti alle cinture dei loro kimono.
Charles arrivò a collezionare duecentoquaranta di questi piccoli oggetti che rappresentano la “eredità” artistica della famiglia Ephrussi che, in modo anche rocambolesco, è giunta fino all’autore.
La prima parte del libro, quella ambientata in Francia, mi è parsa la meno interessante e anche abbastanza lenta, per quanto ravvivata non solo dagli avvenimenti artistici che descrive ma anche da figure quali addirittura Proust, che si narra abbia tratto da Charles parziale ispirazione per la figura del barone di Charlus.
Le cose cambiano quando la famiglia Ephrussi si trasferisce a Vienna, in un grande palazzo che ancora oggi si può ammirare. Il nuovo capofamiglia, Viktor, è un uomo mite, che porta avanti i lucrosi affari di famiglia per puro dovere, per il resto concentrandosi su quello che è il suo vero diletto, ossia i libri, specie di antiquariato, che si fa arrivare in grandi casse da tutta Europa.
Nel narrare le vicende della sua famiglia de Waal definisce tre filoni fondamentali: l’amore per l’arte e la cultura, che la grande ricchezza degli Ephrussi non soffoca ma anzi alimenta; gli sforzi della famiglia per integrarsi il più pienamente e profondamente possibile nella società viennese; l’antisemitismo strisciante in tutta Europa, che ben si percepisce fin dal periodo francese, e il suo precipitare con l’avvento del nazismo; un precipitare, tuttavia, che solo parzialmente può spiegarsi con la follia nazista, essendo in buona parte frutto di radici molto più antiche e vaste.
Sul piano narrativo la seconda parte del libro è senz’altro la più bella; e stringe veramente il cuore la descrizione dello scempio da parte della Gestapo di un patrimonio familiare amorosamente raccolto e conservato nei decenni:
“A sparire non sono solo i quadri, non solo i ninnoli e soprammobili dorati che abbellivano i tavoli e le mensole dei camini, ma anche i vestiti, i cappotti di Emmy, una cassa di vasellame in porcellana, una lampada, un mazzo di ombrelli e bastoni da passeggio. Tutto quello che ha impiegato decenni ad arrivare in questa casa -regali di nozze e di compleanno, souvenir- , che ha impiegato decenni a trovar posto dentro scrigni e cassetti, vetrine e bauli, adesso viene riportato fuori. È il sinistro smantellamento di una collezione, di una casa, di una famiglia. È il momento della frattura, in cui le cose preziose vengono perdute, e gli oggetti di famiglia, conosciuti maneggiati amati, diventano ‘roba’ qualsiasi”.
Per non parlare poi dei quadri, degli argenti, dei libri; e, naturalmente delle persone.
Da questa bufera si salva quasi miracolosamente, per il gesto della governante ariana che si è presa cura per decenni degli Ephrussi, solo la collezione di netsuke e poco altro.
Edmund de Waal è un artista, un rinomato ceramista (nella introduzione ricorda l’insegnamento fondamentale del suo maestro: “Guardati sempre dal gesto gratuito: less is more, bando al superfluo“). Ed è grazie, credo, a queste sue caratteristiche che può raccontare così bene questa storia, protagonista della quale è l’amore per l’arte e il bello, che viene simboleggiato dai netsuke, piccole ma mirabili sculture (sul Web ci sono molte immagini: vederle per me, che prima di questo libro addirittura ne ignoravo l’esistenza, è stato un piacere), frutto della straordinaria capacità manuale degli antichi artigiani/artisti giapponesi, e con i quali il possessore stabilisce un contatto quasi più tattile che visivo.
Infine una bellissima citazione di Proust nell’esergo: “Anche quando non si tiene più alle cose, non è affatto indifferente averci tenuto…”.
Poronga