George Washington Crosby sta morendo, accudito da moglie e figlie, in un letto da ospedale che è stato trasportato nella bella casa costruita con le sue mani; casa e che è riuscito a metter su grazie ai suoi buoni guadagni di abile orologiaio.
In questa situazione George rievoca la sua giovinezza e in particolare la dolente figura del padre Howard che, grazie anche all’aiuto della inflessibile moglie, tirava avanti alla bell’e meglio la propria famiglia con un lavoro di mercante ambulante, nonostante le crisi epilettiche cui andava soggetto.
A un certo punto entra nella narrazione anche il padre di Howard, la cui vita di pastore protestante, a un certo punto respinto dalla propria comunità di fedeli, non fu meno difficile e triste.
Insomma il tema principale del romanzo è il rapporto figlio/padre e la pena del primo per il secondo per la sua incapacità di vivere e di far vivere bene la propria famiglia, cui si aggiunge una situazione di sostanziale solitudine e incomprensione.
Il soggetto è quindi interessante; peccato che il romanzo, oscillante fra continui rimandi da un padre all’altro -il che già di per sé lo rende abbastanza difficile da seguire-, sia complessivamente confuso e sfuocato, nell’ultima parte addirittura degenerando in rievocazioni criptiche e tortuose delle quali ho capito francamente poco, essendomi d’altra parte sembrato inutile uno sforzo di maggior comprensione, che in ogni caso non mi è venuto fatto di compiere (se sei Proust o Foster Wallace d’accordo, se sei solo Harding molto meno).
Debbo aggiungere che sono rimasto alquanto sorpreso, dal momento che questo libro ha vinto il Pulitzer 2010, premio che in genere è garanzia di qualità (indubbiamente presenti anche ne “Il cardellino” della Tartt, per quanto di parecchio superate dai difetti); qualità che invece qui mi pare siano sostanzialmente latitanti.
Poronga