Non avevo ancora letto A.K. ai tempi della classifica sull’Asino dei migliori romanzi mai scritti, e pertanto non lo avevo citato (come alcuni hanno fatto…).
Ora l’ho letto e non ho ancora deciso come posizionarlo, ma sicuramente lo metterei nei primi posti.
Ho trovato la storia di A. molto dirompente. Da maschio, con tutte le limitazioni del caso e rendendomi conto di camminare su di un terreno minato, mi sento di azzardare la definizione della protagonista come di una “proto femminista”.
La nobiltà russa della fine del’ 800 non è stata certo una classe sociale capace e trasparente, sia da un punto di vista economico che politico, ma il vero suo tallone d’Achille è sicuramente il suo codice culturale.
La famiglia è sacra, la religione pure, le apparenze e le consuetudini ancor di più.
Trasversale a tutto ciò vi è un edonismo sfrenato e decadente, una ricerca del piacere compulsiva (piacere consentito o meno, poco importa..) in virtù della quale ogni mossa, purché sotterranea e nascosta, è assolutamente lecita.
In questo quadro, caratterizzato da una ipocrisia patologica, si muove la nostra protagonista. Sono tempi difficili e la sua vita non sarà facile.
La prima peculiarità di Anna è quella di non accettare la consuetudine dell’epoca: non credo che la sua qualità più saliente sia la dedizione all’amore ed alla passione (ciò mi sembra addirittura marginale nel contesto del romanzo), ma penso che la sua caratteristica fondamentale sia il rifiuto di celare le sue passioni e la sua vita interiore, sotto la coltre di menzogna, che la classe sociale le richiedeva. L’amore sicuramente c’entra, ma sono convinto che non sia tutto. L’affermazione di Anna è qualcosa che a che fare con il sé, di cui l’amore è componente ma non è il tutto.
Anna avrebbe potuto amare carnalmente e spiritualmente il suo mante, come tutte le nobildonne facevano di nascosto in continuazione, senza provocare alcun squilibrio sia in famiglia che in società, ma Anna non è in grado di accettare proprio questa mistificazione. Non ho detto che fa bene o che fa male e non lo dirò neppure sotto tortura, ma sostengo che questo è il primo passo verso una rivendicazione della propria personalità, dei propri bisogni, del possesso del proprio corpo e del valore dei propri sentimenti.
Anna mi è simpatica, è una perdente, ma mi piace proprio (anche se forse avrei preferito non essere il suo amante..). Forse, avrei adorato essere un suo amico intimo….
Ovviamente penso che tutto ciò fosse una assoluta novità per il suo tempo ed è perciò che mi vien voglia di definirla “proto femminista”.
Veniamo al romanzo in sé: non c’è bisogno di dirlo…è di una assoluta bellezza.
Io però, non posso fare a meno di ricordare almeno alcune scene che sono veramente dei capolavori.
La prima è l’incontro casuale di Vronskij con Anna, quando questi va a ricevere sua madre arrivata in treno ed incontra casualmente Anna che esce dallo scompartimento in cui a viaggiato con la madre. E’ una scena magistrale: Tolstoj non dice quasi niente, sono pochissime frasi, apparentemente banali, ma il lettore viene assolutamente colpito dalla certezza che tra i due sia accaduto qualcosa di ineluttabile e incontenibile. Le loro vite, da questo momento i poi, non saranno più le stesse, entrambi sono stati toccati da un desiderio profondo, ma che è anche forse un danno irreparabile.
In questo frangente T. opera una vera magia: non scrive quasi nulla, ma ci rivela assolutamente tutto. Vi invito a rileggere questo passo. E’ incredibile…
La seconda che mi ha entusiasmato è invece una scena agreste di grande potenza.
E’ una scena bellissima ed estremamente serena.
Levin è in campagna, la sua campagna. Egli ama il suo lavoro, i suoi campi coltivati, i suoi moujik. Egli, che svolge un lavoro dirigenziale, ama anche il lavoro fisico, la fatica, il caldo e il sole: ama il gesto liberatorio del contadino. Il lavoro manuale è un antidoto alla fatica ed allo stress di quello intellettuale e la vita semplice ed agreste costituisce una attrazione irresistibile.
Levin ama il cibo povero e sano, così lontano dai banchetti decadenti e lussuosi di Mosca, nei quali ormai egli si sente un perfetto estraneo.
Una mattina decide improvvisamente di andare a fare un po’ di esercizio fisico: andrà a falciare i campi insieme ai suoi contadini. Sarà una giornata, lunga e dura, nel sole accecante, ma memorabile per i suoi sentimenti.
Egli lavorerà al fianco di personaggi semplici e sinceri, tra cui in particolare un vecchio contadino del quale conserverà un ricordo piacevole e rassicurante. Sarà anche una giornata un po’ rivelatoria, perché contribuirà a guidare le scelte di L. per il resto della sua vita.
T. scrive molte pagine su questa semplicissima giornata, sulla pausa per il modestissimo pranzo ed il riposo meridiano, e sono pagine maestose, pittoriche. Si vede la lunga fila di falciatori che avanza: davanti il mare di spighe che ondeggiano al vento, alle spalle il soffice tappeto del tagliato. Si vedono i colori della campagna, se ne sente la calura, si respirano i profumi. Non si può fare a meno di ripensare alla migliore cinematografia che successivamente ha esaltato questi aspetti e soprattutto al lavoro dei migliori impressionisti che tanto hanno attinto a piene mani da questo tema.
Si tratta di un passaggio molto rassicurante, forse oggi diremmo anche un po’ mistificatorio. La vita agreste, al di là del fascino estetico, ha sicuramente dei profondi lati negativi che ognuno di noi ben conosce (ed anche il nostro L. li ha presenti…) ma si tratta in ogni caso, di una parentesi distensiva tra le continue difficoltà della vita: la contemplazione della natura nella sua semplicità, contrapposta alla complessità del progresso.
L’ultima scena su cui voglio focalizzare l’attenzione, è invece, una scena altamente drammatica. Tutto è finito.
Vronskij sta viaggiando su un treno diretto al fronte al fronte, dove combatterà al fianco degli Slavi Cristiani contro l’Impero Ottomano.
Vi è un incontro sulla banchina di una stazione, durante una pausa del viaggio tra questo uomo distrutto e Seghjej Ivanovich in cui tra i due uomini si instaura una profonda intimità.
Serghjej è un intellettuale ed ammira l’eroismo dell’altro che è pronto a morire per andare a difendere quelli che considera fratelli cristiani.
Vronskij mostra le sue ferite spirituali e non si considera un eroe: è semplicemente un uomo disperato in cerca di una morte dignitosa, e non lo nasconde.
La scena è studiata magistralmente. Vronskij ha pure male a un dente e ne soffre visibilmente: sta andando in guerra a morire con il mal di denti e questo contribuisce a togliergli anche l’ultima parvenza di epicità. E’ veramente finito e lo scrittore ci elargisce anche quest’ultima sua debolezza, del mal di denti, per suscitarci ancora più dolore nel vederlo andare incontro al suo drammatico destino imminente. V. è stato un uomo che ha vissuto una vita ricca ed agiata, ha inseguito i suoi sogni, ha scelto di vivere come ha voluto, ha provato l’amore travolgente, l’intensità della passione. Ha avuto molto dalla vita. Forse è stato eccessivamente egocentrico ed egoista, ma dalla vita è stato travolto e ne è stato anche una vittima. Ora non può che inspirarci che una grande compassione.
La fine del romanzo invece, mi ha lasciato molto perplesso.
Francamente avrei preferito finisse con l’ultima potente scena descritta e invece T. non è contento.
Ci riporta ad una situazione tranquillizzante, ma non è questo che mi infastidisce…il fatto è che ci descrive il materialista e razionale Levin che viene colto da crisi mistica.
Dopo una vita riflessiva e laica, in cui si è interrogato sul valore della giustizia umana, sul senso della vita terrena, sui suoi pregi i suoi difetti e sul senso etico che trascende le religioni, fa improvvisamente un passo che personalmente considero un passo indietro: sposa la religione, abbraccia la fede, smette di farsi domande, si mette il cuore in pace e decide di continuare a vivere come un buon cristiano, con la sua bella famigliola ed i suoi privilegi.
Rimango perplesso.
Mr. Maturin
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