In qualche parte dell’Inghilterra, in un’epoca non ben definita (prima dell’invenzione del motore, comunque), Mari ambienta questa storia di stampo e di stile dickensiano, che vede protagonista un ragazzino di età imprecisata, circa 10 anni, alle prese con fatti più grandi di lui.
Roderick è figlio di una prostituta di oscuri quanto nobili natali, essendo figlia illegittima di ricconi. Vive assieme alla madre nell’osteria-bordello diretta dal sordido Jones; la madre muore prematuramente e lui diventa improvvisamente importantissimo perché unico discendente dei nonni ed erede potenziale delle loro enormi ricchezze.
Si scatena a questo punto una lotta senza quartiere ed esclusione di colpi fra il predetto Jones e la madre superiora del locale convento di suore per metter le mani sull’ignaro erede e, per questa via, sull’eredità.
Tutti i mezzi sono buoni, compresi omicidi, sostituzioni di persona e via dicendo, e in questa gara la religiosa non si dimostra inferiore a nessuno, specie per mancanza di scrupoli.
Altro personaggio saliente è la vice-superiora, un conturbante ermafrodito che sollecita le passioni di tutti i maschi adulti con i quali viene a contatto.
Lieto fine.
Il libro è scritto all’insegna del piacere di narrare, e non è affatto male, anche per quanto riguarda il continuo colloquio che il narratore intrattiene con il suo lettore.
Gli si perdonano quindi talune debolezze nella trama, che mi pare di aver colto.
Paradossalmente durante tutta la lettura sono stato convinto che l’autore fosse quello (Alessandro Mari) di “Troppo umana speranza“, e mi sono quindi detto che mentre la prova in stile manzoniano era impietosamente fallita, quella in stile dickensiano era riuscita molto meglio. Giunto alla fine ho realizzato che il Mari di questo romanzo si chiama Michele.
In conclusione un libro piacevole, col quale sembra quasi di fare un salto nella buona letteratura ottocentesca.
Poronga