Non ho più preso in mano Il nome della rosa da quando lo lessi appena uscito nel 1980. Adesso, sull’eco della scomparsa di Eco ( perdonatemi, ovviamente lui era molto più bravo di me con i giochi di parole ) provo a buttare giù alla rinfusa i miei ricordi a 35 anni di distanza. Perché secondo me il maggior valore di Eco sta nella sua vera professione, il filosofo-semiologo, e nella sua vera passione, il saggista curioso di esplorare aspetti poco noti della struttura sociale. Ma sul’Asinno è giusto parlare della sua terza dimensione, quella di romanziere, nata per puro divertimento ma che ne ha fatto una star mondiale e un uomo ricco. Tanto da poter espandere la sua già cospicua biblioteca privata e comprarsi una grande casa per ospitarla. Non sarebbe il sogno di tutti gli Asinisti e di tutti gli amanti dei libri in genere?
Ricordo che Eco, forse per snobismo ma credo che dicesse la verità, dichiarò di essere stato il primo a stupirsi dell’enorme successo del libro. L’aveva scritto come intrattenimento per pochi amici colti, convinto che avrebbe venduto non più delle quattro o cinquemila copie che in Italia segnalano un romanzo già di discreto successo. Poi le vendite presero il volo, grazie soprattutto al passa-parola perché allora non c’era Internet e la televisione era anch’essa agli inizi e non era ancora quel formidabile venditore di libri – pessimi – che è ai nostri giorni. Il film ha fatto il resto e naturalmente nella memoria di milioni di persone quello che rimane sono soprattutto le immagini molto più che le parole. Film anche apprezzabile e recitato da bravi attori; ma mi si consenta di dire che solo le leggi di Hollywood possono identificare Guglielmo con un bell’uomo come Sean Connery. Io almeno, prima del film, me lo ero immaginato completamente diverso e non sono mai riuscito a vederlo nell’attempato James Bond.
Ma veniamo al libro, sul quale darò un sinteticissimo giudizio. I miei amici snob di allora, amanti delle avanguardie letterarie, lo consideravano un polpettone commerciale. Io ebbi furiosi litigi difendendone il valore e ribattendo che semmai il fatto che fosse il più bel romanzo pubblicato in Italia negli ultimi dieci anni ( non a caso i cupi e sanguinosi anni Settanta ) andava a discapito degli scrittori italiani che non sapevano più produrre grande letteratura ( e chiedo scusa ai miei amati Sciascia, Levi e Calvino allora ancora vivi ma che battevano altre strade, non quella del grande romanzo ). Pienamente d’accordo sul fatto che il maggior pregio del Nome non stava nelle qualità letterarie in senso stretto, ma le vie della letteratura sono tante, e Il nome aveva aperto nuove prospettive di assoluto interesse.
Ciò varrebbe se il romanzo fosse rimasto, come nelle previsioni di Eco, uno fra i tanti. Come si spiega il successo planetario? Credo di non dire niente di nuovo notando che c’è stata una strana e imprevedibile alchimia fra l’interesse per un periodo storico, il piacere di sentire messa alla prova la propria intelligenza e cultura, l’abilità di Eco di mischiare storie e personaggi creati con maestria. Da studioso, Eco ovviamente conosceva i meccanismi del successo letterario e vi ha attinto a piene mani. Solo per dirne una, il vecchio monaco cieco che ricorda un personaggio reale, magari più noto che letto ma senz’altro affascinante come Borges, è un colpo da maestro. Lo riconoscerebbe anche un bambino, e i giornali ci indirizzavano se avevamo dei dubbi, ma nel riconoscerlo ci sentivamo comunque colti e intelligenti. E si potrebbero citare mille altre raffinatezze, tanto che sono poi usciti molti libri che servivano da guida per interpretare correttamente i riferimenti colti a fatti storici o teorie filosofiche. Lo stesso Eco, pochi anni dopo, sentì il bisogno di scrivere le Postille a Il nome…
Vogliamo fare un po’ di sociologia da strapazzo? All’inizio degli anni Ottanta, dopo aver impiegato i precedenti trenta anni a creare ricchezze, e aver vissuto le crisi degli anni Settanta, le classi medie e alte erano pronte per compiacersi del fatto di non aver raggiunto solo il benessere materiale, ma anche la raffinatezza culturale. E questo libro sembrava fatto apposta per convincerli di fare parte di una èlite. Io, che di questa èlite mi sono sempre orgogliosamente ritenuto al di sotto, ho invece apprezzato soprattutto una cosa del Nome: qui Eco ha messo, come è giusto che faccia qualunque narratore, tutte le sue esperienze di vita. E mentre per alcuni le esperienze sono i viaggi, o il lavoro, o i contatti umani, lui ha scavato nel sacco della sua sterminata cultura, dei suoi studi paludati e apparentemente noiosissimi su Tommaso d’Aquino e i filosofi più astrusi, mostrando come una mente aperta trova sempre il modo di trarre cose interessanti e attuali anche da studi che possono sembrare del tutto staccati dal mondo reale. Questa è la cosa che, secondo me, ha affascinato i lettori. In quelle poche centinaia di pagine, Eco ha messo trent’anni di studi e la sua intelligenza curiosa. I lettori questo lo hanno percepito, anche se ognuno riusciva a cogliere probabilmente solo una piccola parte delle sottigliezze intellettuali. Questo lo inserisce di buon diritto nel novero dei libri più comprati che letti, e più letti che capiti. Tanto poi, per tenerlo vivo nella memoria, c’è sempre il film.
Per finire: il Nobel? No, qui sono d’accordo con i miei amici snob di 35 anni fa. Il nome della rosa è un libro piacevolissimo, intelligente, acuto. Ma la grande letteratura è un’altra cosa. E la prova che Eco, grandissimo intellettuale, non è però un grande romanziere, sta nei romanzi successivi: ancora accettabile Il pendolo di Foucault, davvero insufficienti tutti i successivi.
Traddles
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