Manlio Cancogni “Allegri, gioventù”

Una piccola e variegata comunità di ultrasessantenni vive in un grappolo di case sparse in una campagna poco discosta da una cittadina. Durante una notte le case e i suoi abitanti vengono flagellati da un temporale di fine estate dalla inusitata violenza. Ciò porta uno scompiglio che non riguarda tanto i luoghi colpiti dall’evento, pur duramente provati (ma in fondo nulla di grave) quanto le persone che vi abitano, che è come se avessero ricevuto una specie di scossa che ne altera in modo imprevedibile i comportamenti, soprattutto attinenti alla sfera sessuale. Appetiti e pulsioni che sembravano sopite si rianimano improvvisamente, in una serie di indiavolati  incroci dalle alterne vicende.

Continua a leggere

Pubblicità

Manlio Cancogni “Azorin e Mirò”

cancoUN PICCOLO GRANDE LIBRO.

La sensazione che si prova chiudendo l’ultima pagina di “Azorin e Mirò” è quella di aver tenuto sul palmo della mano una piuma che ora la brezza sta portando via.

Vien quasi da pensare che questo libro esile che si è appena concluso fosse fatto di niente. E in effetti il racconto della straordinaria amicizia dei due protagonisti, Azorin e Mirò,  è tutto contenuto in gesti semplici e ordinari come il lento volgere dello sguardo su una persiana scolorita, il volto di una ragazza che ci guarda da una piccola cornice su una scrivania, o i passi tranquilli dei due lungo una polverosa strada di periferia.

Tutto qua. La vita per Azorin e Miro è racchiusa in un pacato scorrere dei giorni vissuti con un’adesione sincera alla segreta poesia del quotidiano. Anche se una parola come ‘poesia’ Azorin e Mirò non la pronuncerebbero mai.

“L’amicizia di Azorin e Mirò si accresceva giorno per giorno di nuovi tesori. Ormai non potevano fare a meno l’uno dell’altro. Timidi e schivi nelle manifestazioni del sentimento (dicevano di odiare i sentimenti) non se l’erano mai detto, ma lo sapevano entrambi. Si vedevano tutti i giorni, nel pomeriggio, e se uno tardava all’altro non pesava aspettare, anche se l’attesa si prolungava eccessivamente. Poi si mettevano in moto, e andavano dove il caso o l’abitudine li portava, senza scopo, senza provare noia. Tornavano spesso sui loro passi, senza accorgersene. Sedevano su una panchina, sui gradini di una chiesa, sul bordo di una fontana, o sulla spalletta del fiume, passavano un’oretta nei salottini tiepidi e nebbiosi di un bordello. Mirò aveva una preferenza per i quartieri periferici, Azorin per quelli vecchi, nel centro. Per la ‘vecchia Dublino’, come la chiamava lui. E prevalendo col tempo il suo gusto (la vecchia Dublino era vecchia ma non artistica e offriva il vantaggio di molti cinematografi, caffè e bordelli di secondo ordine), cominciarono entrambi a chiamarla: ‘la nostra vecchia Dublino’.”

Non avevo letto mai un libro così. Limpido e trasparente come l’aria del mattino, fragile come un minuscolo uovo azzurro. Non so parlarne in altro modo. Né saprei dirne di più. Farlo, mi pare, significherebbe infrangerne l’incanto.

Manlio Cancogni è oggi un grande vecchio. Ultranovantenne, sorride con passione alla vita, tutta quella passata, e quella che ancora deve venire. E viene spontaneo pensare che il segreto della serenità di chi ha vissuto senza mai tradire se stesso sia custodito in questo piccolo libro giovanile.

la signora nilsson