Marcel Proust “Il tempo ritrovato”

temp“Il tempo ritrovato” chiude questa benedetta, straordinaria, ingombrante “Recherche”.

Di nuovo c’è la Grande Guerra, che fa da sfondo alla prima parte di questa sezione, e che offre lo spunto per l’unica “punta” descrittiva, peraltro di assoluta eccellenza, che in essa compare, ossia l’illustrazione di Parigi d’inverno, durante il coprifuoco, che si offre alle impareggiabili capacità descrittive del Narratore durante una passeggiata a tarda sera.

C’è poi la vecchiaia di tutti i protagonisti superstiti (Charlus, la Contessa di Guermantes, Odette, Gilbert) o la loro morte (Siant Loup, Verdurin); comunque un senso generale di passaggio, disfacimento e perdita, cui P. nella seconda pagina dedica diverse belle pagine.

Permane anche qui il tema della pederastia (parola che trovo orrenda, ma “omosessualità” non si addice proprio al clima della narrazione), stavolta declinata nella perversione e nel masochismo, una volta che il Narratore capita “per caso” in una “casa particolare” gestita da Jupen (ancora lui) e nella quale trova Charlus (ancora lui) intento a farsi seviziare da giovani prezzolati, della cui insufficiente violenza C. si lamenta poi con J.

La casa e anche frequentata da Saint Loup , il che sembra suggerire la quasi normalità e comunque diffusione di questi gusti particolari, che comunque il Narratore racconta e descrive con atteggiamento quasi notarile.

È rimarchevole poi, a suggellare ancora una volta la deferenza di Proust, nonostante tutto, verso l’aristocrazia, che Charlus, pur ormai vecchio e posseduto dal vizio, non se ne faccia travolgere, mantenendo inalterata la sua nobiltà d’animo e di linguaggio.

Da segnalare, ovviamente, la parte in cui Proust espone la sua teoria dell’arte e della percezione, nell’interminabile matinée dai Guermantes, nel quale il Narratore si congeda dal “bel mondo” nel quale per lungo tempo ha vissuto immerso.

Tutto inizia da un banale incespicare che ricorda vivamente al Narratore la sensazione che una analoga esperienza gli provocò tempo addietro a Venezia, il che gli riporta per analogia passate esperienze percettive, emozionali ed intellettuali (la celeberrima madaleine inzuppata nell’infuso, il suono metallico di un treno, il contratto con un fazzoletto di lino: pg. 918-921).

Partendo da qui Proust esplicita e sviluppa il tema teorico che ha fatto da ossatura intellettuale all’opera, di cui fornisce la chiave, fino a giungere al “tempo ritrovato”.

È una lunga, pesantissima dissertazione (pg. 924-972), in attesa che finisca l’esecuzione di un brano musicale che era già iniziato quando lui era arrivato.

Questa parte l’ho saltata senza esitazioni, non interessandomi affatto; il tema comunque è il passato che vive in noi tramite la memoria percettiva: la ricerca del tempo perduto, il tempo ritrovato.

A seguito di questa illuminazione il Narratore decide: ha trovato la sua missione, lavorerà tantissimo, anche la notte, per comunicare al mondo la rivelazione avuta; scriverà la “Recherche”.

Poronga

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Marcel Proust “La fuggitiva”

fuggChiusasi la  precedente sezione con l’annuncio della fuga di Albertine, questa parte e interamente quasi dedicata alla autoanalisi: in particolare al minuto svisceramento dello stato di dolore che la fuga di A. genera nel narratore e la descrizione dei tortuosi percorsi mediante i quali questo dolore, immane, intollerabile, si trasforma a poco a poco, ma fatalmente, in oblio.

Per lunghissime pagine P. si addentra in una analisi così parossisticamente acuta e minuta da diventare labirintica e quasi, salvo enormi sforzi, incomprensibile, e comunque complicatissima.

In tutto ciò il narratore è anche molto onesto, tanto da non nascondere nulla delle vere e proprie bassezze che, con estrema disinvoltura, racconta aver fatto pur di riavere Albertine. Egli così decide in un primo tempo di fingere indifferenza, sembrandogli quello il miglior modo per riavere A., salvo però essere disposto addirittura a pagare denaro per riuscire nello scopo. Addirittura le invia delle lettere lusingandola con lo yacht e la Rolls Royce che le dice avere già ordinato per lei. Infine mette in piedi una squallida manovra con Andree, fingendo di averla presi in casa al posto di Albertine con la speranza che questa, ingelositasi, ritorni.

Diciamolo: in alcune, anzi parecchie parti, questo “La fuggitiva” è un po’ indigesto, anche se in tutto ciò Proust, oltre alla consueta straordinaria capacità descrittiva, offre una superba rappresentazione degli ondivaghi e contrapposti moti di chi soffre per amore, svelandone anche le piccolezze e miserie: addirittura il narratore arriva al punto di vagheggiare la possibilità di parlare con Albertine solo per poterle dire che sapeva dei suoi tradimenti, specie con le donne e anzi, a quanto pare, esclusivamente con loro.

Anche questa parte è dominata da una singolarissima, e chissà come psicanaliticamente interpretabile, avversione e orrore per il lesbismo, a maggior ragione sorprendente posta la forte propensione di Proust al voyeurismo e, in genere, a tutto ciò che è torbido (ad esempio l’interesse per le orge organizzate da Albertine e dal violinista Morel, ex manutengolo di Palaméde, conte di Guermantes).

Riappare Gilberte, ormai sfiorita agli occhi di Proust che, ricchissima, se non ricordo male sposa Saint-Loup, ormai quasi ex amico di Proust.

Per finire questa parte, quella che complessivamente mi è piaciuta meno, offre comunque una vera e propria perla rappresentanza delle descrizioni di Venezia, veramente stupende.

Poronga

 

Marcel Proust “La prigioniera”

prigQuesta parte è interamente dedicata alla convivenza more uxorio fra Marcel e Albertine, che si è trasferita a vivere (l’autore vorrebbe farci intendere in incognito, ma è difficile crederlo in presenza della linguacciuta Françoise) da lui.

In questo contesto lo spazio è in gran parte dominato dalle apprensioni di Marcel per le tendenze sessuali di Albertine, dalla gelosia, dal sospetto.

Sentivo che la mia vita con Albertine era, per un verso, quando non ero geloso, solo noia; per un altro, quando ero geloso, sofferenza“.

L’amore, o meglio, la convivenza fra M. e A. che segue all’innamoramento, e che certo amore non si può chiamare, viene presentato come la più classica delle gabbie, fonte di fastidio e nevrosi; un, appunto, eterno pendolare tra noia e sofferenza ove non vi è posto per la gioia, ma solo per un momentaneo sollievo fra una crisi di gelosia il suo dissolversi, cui peraltro immancabilmente segue la implacabile noia.

La gelosia e, conseguentemente, l’eterno sospetto, rovello, rimuginìo, sono in Marcel davvero parossistici, e il rapporto con Albertine un viluppo inestricabile.

Tutto ciò non può che portare a un altro ingrediente che si aggiunge a questa tossica miscela, ossia la menzogna, nella quale A., già tendenzialmente bugiarda di suo, trova naturale tentativo di fuga.

La diffidenza di M. diviene quindi maniacale; ogni minima cosa diventa esca di interminabili congetture che tra l’altro, spesso, si rivelano singolarmente ingenue quanto al risultato che producono.

Ancora, l’amore si rivela una palestra di egoismo, riducendosi alla paura di perdere il possesso dell’altro, ossia in pratica quella situazione di privilegio dell’amante verso l’amato che rappresenta l’unica forma di gratificazione verso gli altri che questo possesso (per ora) non hanno.

È facile figurarsi come questa ben poco invidiabile situazione rappresenti il terreno di coltura ideale della più folle, e tragicamente priva di senso del ridicolo, gelosia.

Nelle pieghe del racconto, a dir poco egocentrico, emerge inoltre un atteggiamento davvero dispotico di Marcel verso la docile e arrendevole Albertine, che giustifica appieno, anche se probabilmente non ne costituisce nè l’unico né il principale motivo, l’abbandono da parte di A. della sua prigione.

Con questo, o meglio, con l’annuncio di questo da parte di una Françoise che poco si perita di dissimulare il suo gaudio, si chiude questa sezione.

In conclusione il tema, ossessivo e noiosetto, sul quale insiste “La prigioniera”, solo in parte viene riscattato dal sempre presente virtuosismo letterario e dalla straordinaria capacità introspettiva e descrittiva di Proust.

Altri temi qui hanno poco spazio.

Memorabile mi sembra solo la sinfonia di parole con le quali  P. disserta su Albertine dormiente, e la descrizione del desolato Marcel che, muto, sta in corridoio davanti alla porta di Albertine sperando che questa in qualche modo si rifaffacci per dargli quel bacio della buona notte che ha sostituito, per quanto meno castamente, il bacio materno (pg. 111).

E qui viene un altro paradosso, perché questo Marcel così egoista, egocentrico, piagnone, ma pure indifeso e nel contempo geniale, riesce alla fine a farsi davvero voler bene.

Per il resto aleggia nel romanzo, pur quasi mai nominata, la malattia di Proust, la sua malferma salute e, ancora, il suo grande amore per la musica, sia essa quella dell’idealizzato Vinteuil o quella che proviene dai richiami dei venditori al mercato.

Poronga

Marcel Proust “Sodoma e Gomorra”

sodEd ecco irrompere la omosessualità, tanto maschile e femminile, vera protagonista di questa parte della Recherche, non a caso dominata, quali personaggi di spicco, da Charlus (o meglio, il Barone di Charlus, col cui accoppiamento frettoloso e un tantino animalesco con il merciaio Jupen si apre questa sezione) e Albertine, la cui segrete tendenze inquietano molto il narratore.

È singolare notare, tuttavia, che mentre l’omosessualità maschile viene -almeno a parole- trattata sì come un vizio e forse una vergogna, ma pure con una certa qual appassionata curiosità (morbosità?), che per esempio dà luogo a una elaborata e colta digressione dove l’omosessualità degli uomini viene paragonata alla sessualità dei fiori, la omosessualità femminile è invece vista con vero orrore, al punto che il narratore rinuncia e stravolge, alla fine del libro, ogni suo programma per impedire che il lesbismo di Albertine possa manifestarsi.

Certo comunque che Albertine è una figura assai singolare, torbida e voluttuosa. La disponibilità con la quale si concede al narratore e al contempo la totale anaffettività per lui (A. per esempio non mostra alcuna gelosia per le altre donne); gli sguardi lascivi che le vengono di continuo attribuiti; una certa passività nell’abbandonarsi alle passioni e ai piaceri; una totale enigmaticità quanto ai suoi sentimenti reali; tutto ciò ne fa un personaggio direi unico.

Quanto volatile e sfumata è Albertine, tanto netto è Charlus: di facili furori, dallo sviluppato e raffinato senso estetico, cultore di arti, isterico, è dominato dalla sua omosessualità (cui d’altra parte tutti fanno sottinteso ma costante riferimento quando si parla di lui o lo si vede in società) e dai modi effeminati e che sfuggono continuamente al suo controllo.

Per il resto che dire? Che il narratore ritorna a Belbec, dove quasi tutta questa parte è ambientata; che la vita mondana salottiera continua, qui specialmente con la “tribù” dei Verdurin; che in tale contesto P. infila delle pagine bellissime raccontando i soggiorni alla Raspelier (p. 1070 s.); che Swann viene un certo punto dato per morto e sparisce, è da ritenere prima della vita di società che dal romanzo, senza tanti complimenti; che altre pagine memorabili davvero P. scrive descrivendo le “intermittenze del cuore” e l’andare e venire dei sentimenti; che abbiamo anche un Proust umorista, specie quando si cimenta a inventare gli strafalcioni linguistici del direttore dell’albergo di Belbec; che P. stavolta rivolge la sua sensibilità, gusto e capacità di osservazione prevalentemente ai colori (anche se a un certo punto decide di stupire, credo ironizzando su di sé, col dire: “Oggi non saprei dire come fosse vestita da signora Verdurin quella sera. Né forse lo sapevo meglio allora, perché non ho spirito di osservazione”: p. 1018); che, infine, P., così sensibile alla aristocrazia e ai salotti, fa (p. 1100) anche una sorprendente professione di egualitarismo e addirittura di predilezione per gli umili.

Per il resto il solito Proust (comincio a capire chi mi ha detto che, al termine della Recherche si è sentito come abbandonato pensando: “E adesso?”) che, ho realizzato, insegna un nuovo modo di leggere e di seguire e insieme perdersi (e ritrovarsi) in queste sue frasi che partono, virano, guizzano ancora, imprevedibili come un gioco di scatole cinesi e di fiori che si schiudono, per poi rivelarsi nel loro significato completo e compiuto solo alla fine, come se lì alla fine ci fosse proprio lui, Proust, che ti consegna la chiave.

Infine alcune citazioni, bellissime:

Non sentivo più desiderio di vederla, e neppure quel desiderio di farle vedere che non mi importava più vederla che ogni giorno, quando l’amavo, mi ripromettevo di mostrarle quando non l’avessi più amata” (772).

La malattia è il medico più ascoltato: alla bontà, al sapere non si fa che promettere, ma alla sofferenza si ubbidisce” (803).

E d’altronde, è proprio dell’amore il renderci a un tempo più diffidenti e più creduli, l’indurci a sospettare della donna amata prima che d’un’altra e a prestare fede più facilmente ai suoi dinieghi. È necessario amare per darsi pensiero del fatto che non ci sono soltanto donne oneste, anzi per accorgersene; ed è necessario amare per augurarselo, cioè per accertarsi che ce ne siano” (869).

“… mi ero sentito a un tratto una responsabilità troppo grande, la paura di dargli dolore, e quella malinconia che nasce in noi quando abbiamo cessato di obbedire a ordini che di giorno in giorno ci nascondono l’avvenire: la paura di renderci conto che finalmente abbiamo cominciato a vivere sul serio, da adulti, la vita, la sola vita che sia a disposizione di ciascuno di noi” (995).

Nell’umanità la regola, che importa naturalmente qualche eccezione, è che i rigidi sono dei deboli che la gente ha respinto e solo i forti, incuranti di essere respinti o no, hanno quella dolcezza che il volgo scambia per debolezza” (1121).

Poronga

Marcel Proust “I Guermantes”

guer… ovvero l’apoteosi della nobiltà e dei salotti parigini consumata in 600 pagine: Eppure me le sono lette da cima a fondo senza discutere né protestare: potenza di Proust.

Si attacca con l’infatuazione del narratore per  Oriane Guermantes, che egli fa di tutto per incontrare (d’altra parte la cosa è quasi nulla rispetto alla iperbole della Signora di Cambremier che, gravemente malata, si preoccupa seriamente di morire prima di poter essere ricevuta dal Duca di  Guermantes).

Comunque l’aristocrazia è descritta come qualcosa di veramente importante. Innanzitutto ineffabile e irraggiungibile; poi oggetto di un rispetto quasi da culto da parte degli umili; e, soprattutto, istituzione.

Oriane, la Duchessa, ne rappresenta il simbolo più puro: vero faro per la élite parigina per i modi, i motti, le battute, i comportamenti controcorrente subito assunti a paradigma dello chic e dello stile.

Questa autentica fissazione non impedisce a Proust di scrivere una importante e profetica pagina (492/493) su una futura possibile società di eguali, né di prendere in un certo senso le distanze, raccontando con distaccata ironia (almeno così mi è parso e così spero) l’interesse maniacale per le genealogie e casati, oppure la tipologia dei saluti che i Guermantes rivolgono, quando li rivolgono, a chi li incontra.

Va però ugualmente detto che P. non si astiene minimamente, per esempio, dal fare, serissimo, una lista dei gentiluomini per i quali a Parigi viene fatto un certo tipo di cappello svasato…

Insomma, un mondo che è croce e delizia per molti, primi fra tutti forse proprio i rappresentanti di questa nobiltà così rigida, inaccessibile, ipocrita e amorale (che gli uomini –tutti- abbiano una amante mantenuta è fatto accettato, presumibilmente per mancanza di alternative, dalle stesse mogli), e con le sue regole spietate quanto vacue, che vengono riassunte nella frase che P. mette in bocca ai Duchi di Guermantes verso la fine di questa terza sezione della Recherche: “I doveri mondani vengono prima della morte di un amico“.

Parte integrante di questo mondo è ovviamente quello dei salotti, che viene rappresentato attraverso un chiacchiericcio instancabile, vuoto e assordante (150 pagine solo sul salotto di M.me de Villeparisis), con tutto il corredo di malignità e falsità che i loro frequentatori si scambiano. Tutto ciò osserva, annota, narra, un Proust defilato, pressoché muto, autorerelegatosi a ruolo di mero testimone.

P., pur impegnato nella stesura di un’opera “universale”, non disdegna affatto la cronaca del contingente mondano, letterario, politico, primo fra tutti il caso Dreyfuss che riecheggia lungo le pagine di tutto il romanzo.

Per il resto poco altro, ma sublime: la morte della nonna, descritta con toccante, dolorosa dedicata partecipazione; un altro po’ di  Françoise, fedele, pettegola, impicciona, infallibile: una straordinaria figura popolare a tutto tondo; Proust stesso, con le sue merende, passeggiate, emorragie nasali, vestizioni e svestizioni, soggiorni nella sala da bagno.

Sicuramente delle varie sezioni della Recherce quella più “inutile”, ma in realtà utilissima, anzi imprescindibile per il fatto stesso di essere stata composta da un uomo capace di scrivere, fra le tante, cose del genere:

Di fronte a quelle idee, il ricordo della Signora di  Guermantes all’Opera era ben poca cosa: la piccola stella di una cometa in confronto alla sua lunga e splendente coda”.

Poronga

Marcel Proust “All’ombra delle fanciulle in fiore”

fanciullePiù si va avanti più si sprofonda, ammaliati, increduli, ma anche provati, nello sbalorditivo periodare proustiano con frasi complesse, cesellate, dalla forma insolitissima, il cui senso spesso si chiarisce nelle ultime parole, quasi fossero ciascuna di esse un rebus rischiarato dalla luce finale che appare quale un colpo di scena.

P. si conferma una miniera inesauribile di sensazioni e una fabbrica instancabile e sovrumana di osservazioni, analisi, descrizioni tanto della natura che dell’animo e dell’esperienza umana.

A questa inesausta e incessante microscopìa dei sentimenti non può che corrispondere una ipersensibilità parossistica, che porta l’io narrante ad esempio a essere capace di soffrire e piangere sulle delusioni di una amicizia puramente immaginata e non ancora realizzatasi.

Tutto ciò è costantemente sorretto da una padronanza e un virtuosismo letterario inaudito, del quale ad esempio P. dà ampia prova nella descrizione dei dipinti di Elstir (pg. 903 e s.).

Alla base di tutto questo ci vogliono, ovviamente, una intelligenza e una sensibilità acutissime; così ad esempio quando P. descrive l’amore per Gilberte, l’illanguidirsi della passione e, infine, il distacco da lei; e, in tale contesto, il fluire e il trasformarsi della passione, con il succedersi dei vari “io” che tale passione provano.

Anche questa seconda parte è piena di perle: splendide similitudini (es. pag. 617), ficcanti aforismi (618, 631), digressioni sagge e profonde (quali quella sul rapporto con i medici: 619), considerazioni sull’adolescenza (794) e sulla bellezza dell’adolescenza che mi hanno lasciato a bocca aperta dall’ammirazione; un senso estetico innato e penetrante fin nelle cose più minute (755); delle figure a tutto tondo magistrali quali la nonna, essenziale, sbrigativa, affettuosissima, o la governante Françoise; considerazioni o vere e proprie teorie, quali quelle sull’oblio e il subconscio, che farebbero e probabilmente hanno fatto la felicità di filosofi e psicanalisti.

Insomma, un libro talmente ricco e complesso che è veramente difficile commentarlo.

Comunque esso si compone di due parti. La prima intitolata “Nel giro della signora Swann” ove viene descritto l’amore per Gilberte e il suo sfiorire e, contemporaneamente, accennata la nascita di una specie di infatuazione-“amore” per la madre Odette. Qui c’è anche una larga parte dedicata ai salotti e alle loro cronache che ci mostrano un P. pettegolo e leggero; e si coglie al contempo un vero rispetto per l’aristocrazia. Tutte cose che, tuttavia, grazie a P., appaiono tutt’altro che ridicole o indisponenti, casomai sorprendenti; in parte certo sorpassate, in parte invece ancora di inaspettata attualità.

La seconda parte, “Il Paese” è tutta inscritta nel soggiorno vacanziero di P. e della nonna (oltre all’immancabile e inarrestabile Françoise) a Balbec.

E’ la parte secondo me più bella, sublime quadro della bella epoque, dove appaiono le fanciulle in fiore alle quali P. dedica memorabili pagine trasognate (854 e s.; 959, 974); così appassionate e credibili da far addirittura dubitare della sua presunta omosessualità.

Ancora una volta splendida la fine, con il rifiuto di Albertine, il tempo che peggiora, le partenze, la fine della vacanza, il ricordo.

Poronga

Marcel Proust “La strada di Swann”

prPer me Proust non è semplicemente un autore, ma una vera e propria esperienza letteraria come per esempio potrebbe essere, per chi ama viaggiare, New York: imperdibile.

P. in effetti è un autore unico, neppure paragonabile ad alcun altro, come unico è il suo mondo, composto innanzitutto dall’animo e dalla mente umana (vabbè, la sua, il che è tutto dire) ma anche da altre piccole ma egualmente importanti cose: le buone maniere, i riti, la vita dell’alta borghesia parigina fin di siècle, le passeggiate, i fiori.

Al servizio di tutto ciò egli pone una impressionante acutezza di analisi e comprensione introspettiva da un lato, e una straordinaria capacità descrittiva dall’altro, che rendono pienamente ragione della sua fortuna quale imprescindibile mostro sacro della letteratura di tutti tempi.

P. è capace di nobilitare anche un fatto banale tramite la sua sulla descrizione. Così nella prima parte della “Strada”, “Combray”, interamente ambientata in campagna, ci troviamo di fronte all’io narrante che racconta delle sue veglie al buio, prima del sonno; ma anche di un mondo in cui “si dà il buongiorno alla zia” che vive nel suo “appartamento particolare“; e nel quale Marcel aspetta trepidante “il bacio della buona notte della madre”, avendo costantemente a che fare con le zie, nonne, prozie, eccetera.

Accade pochissimo: qualche personaggio che va e che viene, discussioni da salotto spesso oziose (ma importantissime per coloro che le conducono); passeggiate, attenzioni quasi ossessive per la salute debole del ragazzo. Eppure è forse nella prima parte, per quanto spesso ombelicale, che P. dà il meglio di sé, per esempio scrivendo pagine memorabili sul valore della memoria (pg. 195-7 della edizione Einaudi Millenni), rispetto alle quali tutto quello che precede sembra preparatorio.

In tutto ciò P. riesce ad essere anche brioso e spiritoso: così quando descrive le elucubrazioni e le smanie di Swann in crisi di gelosia verso Odette o le passioni e gli struggimenti di Marcel per Gilberte. Altre volte è mortifero, ma pur sempre ricco di fascino, ad esempio quando descrive (7 pagine! 365 e ss.) la frase musicale che sommuove l’animo di Swann.

Questa prima tranche della “Ricerca” si compone di tre parti; la prima, già accennata, ambientata nella campagna di Combray; la seconda dedicata all’amore fra Swann e Odette; la terza dedicata all’amore del protagonista (che ho chiamato Marcel anche se il nome non viene mai menzionato, tranne forse una volta) e Gilberte, al termine del quale la ex cocotte Odette, ora signora Swann e madre di Gilberte, riappare nel romanzo, bellissima e regale.

Splendida chiusa sui ricordi, il passato “e le case, le strade, i viali [che] sono fuggitivi, ahimè, come gli anni”.

Poronga