Bruno Gambarotta è un pacato e arguto gentiluomo piemontese. L’ho sentito con piacere al Festival della Letteratura di Mantova parlare fra l’altro dell’abisso sul quale spesso si affacciano i grandi scrittori, talvolta finendoci dentro, per concludere che lui da quegli abissi lì si è sempre tenuto ben lontano, a costo di rimanere un modesto artigiano (modesto fino a un certo punto, direi).
Questo piccolo libro non è un capolavoro nè ha alcuna aspirazione ad esserlo, ma è una agevole lettura che lascia un gradevole e positivo ricordo di sé.
La storia è una specie di romanzo nero: da un delitto passionale, scambiato per un omicidio di “mala”, sia scatena una guerra fra bande rivali, naturalmente meridionali.
È una storia in fondo un po’ triste e violenta, ma raccontata con un singolare garbo.
La cosa forse più riuscita del libro è il “coro” formato dai commenti della città ai vari episodi narrati che dà, non senza una certa ironia, una efficace rappresentazione di una certa cortese e spietata indifferenza torinese, condita da una buona dose di egoismo benpensante.
Poronga
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