Joe R. Lansdale “Cronache del selvaggio west”

Nel Texas orientale la gentilezza e la violenza sono come un’arma a doppio taglio. Qui puoi trovare le persone più gentili e ospitali che tu abbia mai incontrato, e scoprire che sono capaci di spararti per quello che potrei definire un minuscolo sgarbo“.

Il vecchio Joe così descrive il contesto nel quale sono ambientati i racconti che vedono protagonisti i suoi due eroi, Hap e Leonard.

In effetti Lansdale offre un singolarissimo quanto riuscito miscuglio fra gentilezza e umanità dall’altro, violenza -anche estrema- e duro cinismo dall’altro.

Alla prima categoria ad esempio è ascrivibile “La cucina”, dove si rievoca “il profumo delle riunioni di famiglia e delle cucine calde in cui si preparava di tutto. L’odore dell’appagamento e della serenità, di tutte le cose meravigliose che un bambino adora”; quel bambino che al termine di questa oceanica e periodica riunione, fatta di montagne di cibo e fiumi di bevande, se ne torna a casa con i genitori ricordando che “in quella macchina calda era più vicino al Nirvana di quanto qualunque essere umano sia stato, e mai sarà“.

Altro esempio è “Budino alla banana”, dove un giovanissimo Hap -l’alter ego di Lansdale-  incontra una donna bestialmente maltrattata dal suo compagno e tenta di aiutarla a fuggire, salvo poi trovarla nuda e morta in un fosso,  ricomponendola pietosamente (“Sentivo che doveva essere coperta, e indossare tutte e due le scarpe”). Hap dice infine di non aver mai più rivisto l’aguzzino, ma di avere saputo “che ha avuto un cancro al fegato e che ha sofferto fino a quando è morto, da solo, senza un soldo. Spero sia vero“.

Non mancano naturalmente le parti pulp: “vedevo la faccia di Hilo sul muro che colava come marmellata di fragole mischiata alle ossa e al suo occhio gelatinoso“.

Lansdale è così, prendere o lasciare (io prendo senz’altro). A giudicare da quello che scrive è un uomo buono quanto violento (tra l’altro è un cultore delle arti marziali ed è arrivato addirittura a codificare un proprio stile di lotta internazionalmente riconosciuto), ma giusto e totalmente privo di pregiudizi, tanto che il suo fraterno amico, Leonard, è un nero “gay come un gatto polidattilo e orgoglioso di esserlo, duro come una vecchia bistecca e così maschio che al suo confronto sembrava che i più macho fra gli uomini indossassero mutandine di pizzo e si rasassero le palle”.

In tutto ciò c’è una robusta dose di virilismo che normalmente io detesto ma che, curiosamente, né qui né altrove mi ha dato alcun fastidio.

Spiccano comunque anche qui i grandi pregi di L., primi fra tutti l’immaginazione fantastica e visionaria, la capacità rara di creare nei propri racconti un grande tensione narrativa, la scorrevolezza, il perfetto controllo, e non ultimo uno humor spiccio e irresistibile (“era agitato come un gatto con la coda lunga in una stanza piena di sedie a dondolo“: un esempio fra tanti).

Completano il libro una serie di ricette di cucina di Hap, tanto raccapriccianti quanto spassose: “Prendete una forchetta e frustate quell’uovo come se vi avesse rubato qualcosa“; oppure: “Quando si doveva preparare il pane alle noci, in casa nostra c’era una regola importante. Non si doveva correre o sbattere le porte, per non rovinare il pane. Non ho mai saputo se queste accortezze facessero davvero la differenza … Cuocete quel maledetto pane per circa mezz’ora, poi lasciatelo raffreddare. Tagliatelo a quadrati e ammirate la meraviglia del pane alle noci di mamma. E ricordate di non correre dentro casa“.

Poronga

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