Dietro il nom de plume di Bruno Anicia si cela un professionista austero quanto ricco di sorprese, non solo legate alla sua attività letteraria.
In questo romanzo egli racconta senza fronzoli la saga di una famiglia lombarda, i Peroni, dal 1735 ad oggi.
I Peroni, pur nelle differenze fra le generazioni che si susseguono, sono gente fattiva, dritta, laconica. Ne è un efficace esempio Giosuè, uno dei pater familias che si avvicendano nella storia:
“Quando nel 1930 morì, di vecchiaia, senza disturbare, nessuno poté dire di lui altro che era stato un uomo gioviale, un grande lavoratore, una persona corretta negli affari, ed un buon padre di famiglia.
Dei suoi dubbi, delle sue paure, delle tensioni che avevano segnato tanti momenti della sua vita, del dolore per la morte dei figli, della sua solitudine, dei suoi silenzi e pensieri durante i lunghi spostamenti in calesse e nelle sere passate in anonime locande, nessuno disse nulla, anche perché nessuno ne sapeva nulla, e Giosuè se li era sempre portati dentro tenendoli per sé: “Mèj fà invidia che pietà” era una massima che spesso si ripeteva e ripeteva ai figli.
Con tale spirito le disgrazie, le malattie, i dolori e persino i malumori che possono colpire chiunque, vanno tenuti nascosti, come se non esistessero, e invece occorre mostrare al mondo di non avere mai bisogno di nulla, di essere sani, pagando sempre da bere se si è in gruppo alla locanda, anche se si hanno solo gli ultimi spiccioli“.
Dalla dura condizione di umili e poveri mezzadri da cui partono i Peroni, grazie alla loro intraprendenza, al loro lavoro e ancora lavoro, riescono ad ergersi, pur fra alterne vicende, compresa la forzata migrazione in Argentina, al rango di allevatori e produttori di salumi.
Con stile limpido e pacato, direi quasi manzoniano (il che davvero non è poco: “I Promessi Sposi”, che pure nelle scuole hanno fatto di tutto per farci odiare, sono e rimangono un vero capolavoro) B. A. narra le vicende piccole ma importanti -come importante è la vita di ciascuno di noi- di questi uomini e donne, intrecciandole con serietà e competenza sia con la storia locale fatta di usi, tradizioni, tecniche lavorative, sia con quella generale; e questo è un altro pregio del libro.
Il tutto per illustrare quella che mi è parsa la morale di fondo, esplicitata nei “Ringraziamenti” finali: mantenere “la speranza che ci può essere un futuro migliore, con la sicurezza che lo si può raggiungere comportandosi -con i limiti delle nostre imperfezioni- onestamente, ma anche con la consapevolezza che nessuno ve lo regalerà“.
Poronga