Ermanno Rea “L’ultima lezione”

All’alba del 15 aprile 1987 Federico Caffè dopo aver allineato sul comodino l’orologio, la carta d’identità, il libretto di assegni e pochi altri effetti personali esce di casa senza lasciar tracce. Si tratta della scomparsa più clamorosa ed enigmatica assieme a quella, avvenuta alcuni anni prima, del fisico Ettore Majorana.

A questo mistero Ermanno Rea dedica un libro magistrale, incommensurabilmente lontano dai morbosi pettegolezzi che, quasi certamente, imperverserebbero oggi su un tema del genere.

Rea cerca ovviamente di indagare sulle ragioni di questo abbandono, e lo fa molto seriamente, ma prima ancora gli interessa far capire, riuscendoci benissimo, chi era Federico Caffè.

Economista keynesiano, professore per molti anni di Economia Politica all’ Università Sapienza di Roma, abbandonò tutti gli incarichi che aveva, compreso il prestigioso ruolo di consulente presso la Banca d’Italia, per dedicarsi alla grande passione della sua vita: l’insegnamento.

Il quadro umano e professionale che esce dal libro è bellissimo: “All’apparenza era un uomo di un formalismo esasperato. Ma dietro le “maniere” non c’era nessuno che non intravedesse trepidazione e umanità. Gli studenti ne erano affascinati e in particolar modo coloro che, per temperamento o educazione, si sentivano a loro volta attratti dal linguaggio delle “maniere”, attraverso il quale riuscivano a tessere sofisticate ragnatele intellettuali con il loro professore-mito“. Dopo la lezione “era seguito da uno sciame di giovani fino all’ascensore“; e il fatidico giorno della sua ultima lezione, al suo ingresso “scattano tutti in piedi: è un’aula gremitissima nella quale gli applausi scroscianti sembrano quasi volerlo sollevare da terra“.

Caffè era un uomo interamente dedito all’insegnamento, uno che chiunque avrebbe voluto come maestro perché ti cambiava letteralmente la vita, come tutti i suoi migliori allievi,  a loro volta assurti a cattedre di prestigio, unanimemente testimoniano; “un uomo che esigeva molto dai suoi allievi – dice uno di loro- e che io ho amato e stimato in maniera così assoluta, totale, da non riuscire poi a intravedere, dietro al suo volto, chiamiamolo così, eroico, il profilo di quell’altro Caffè, dell’uomo fragile e stremato che era diventato alla fine“.

“Quanto ai più preparati, cioè a quelli che gli chiedevano di restare all’Università, pretendeva di condurli perennemente per mano: da una borsa di studio all’altra, da un gradino a quello successivo della carriera, spronandoli in continuazione, sorvegliandoli nelle loro prove intellettuali, proteggendoli”; ma allo stesso tempo ammettendo ed anzi incoraggiando il dissenso, in omaggio al suo “gusto innato per l’eterodossia e la disobbedienza“.

Era un uomo severo, integerrimo (al punto che quando i suoi allievi in vista del suo pensionamento gli regalarono un orologio, lui per non dispiacerli lo tenne  salvo, informatosi del costo,  restituir loro i soldi), capace di sfuriate epiche; lui, un omino bassissimo, gracile e dal gran testone, ma circondato da un rispetto e una stima universali, a partire dai vertici della Banca d’Italia (Baffi, Carli, Ciampi), nonostante le sue idee apertamente antagonistiche dell’ordine costituito.

Caffè fondamentalmente riteneva che “una società giusta, umana, può essere soltanto il risultato di un forte impegno individuale e collettivo, può essere soltanto il frutto della nostra audacia intellettuale, della nostra consapevolezza che non esistono meccanismi autoregolamentatori, che il mercato non aggiusta affatto le cose da sé”; di qui lo sforzo costante di dipanare “l’intricata matassa della vita, di scoprire la grande economia, di comprendere i problemi della gente, le disuguaglianze sociali, la solidarietà, l’urgenza della giustizia, la dignità del lavoro, l’umiliazione della disoccupazione“. Quanto al metodo, in uno dei suoi ultimi articoli apparsi su “Il Manifesto” scriveva: “Sono convinto che sia compito dell’intellettuale  quello di rimanere fedele al dubbio sistematico come appropriato antidoto alla riaffermazione intransigente di formule di cui spesso si finisce per essere prigionieri“.

Per unanime parere il suo collocamento a riposo fu un colpo che non riuscì a superare, nonostante gli sforzi di tutti, e dei suoi allievi in particolare, che vollero addirittura che mantenesse la sua stanza in università, scontrandosi col suo inflessibile rifiuto, e munendosi allora di pinze e cacciaviti per spostare in gran segreto i suoi mobili e cose in altro luogo idoneo.

Altro grande dolore fu la perdita prematura di due fra i suoi più amati allievi, fra i quali Ezio Tarantelli, assassinato dalle Brigate Rosse. 

Quando sparì, per tre mesi i suoi studenti e i suoi allievi si misero alla sua accanita ricerca, perlustrando palmo a palmo tutti i posti in cui pensavano potesse essersi diretto; addirittura ingaggiarono prima un detective e poi, per non lasciare nulla di intentato, una veggente: forse la più grande dimostrazione di affetto da parte di persone che erano pur sempre uomini di scienza.

Ancora oggi, a distanza di trent’anni dal libro di Rea, il mistero è rimasto, pencolando fra le ipotesi del suicidio organizzato perfettamente, oppure di un ritiro segretissimo in qualche convento che lo accolse, nonostante il suo dichiarato ateismo.

Il libro di Rea è frutto di una ricerca e di uno studio attenti; in questo contesto egli cita anche John Stuart Mill, illustre economista ottocentesco, teorico del cosiddetto “stato stazionario”, ossia la condizione in cui l’economia non è in accrescimento (in effetti da non economista mi piacerebbe che qualcuno mi spiegasse perché si è condannati a crescere sempre e comunque, cosa che non ho mai capito), e che pensava fosse un ben brutto mondo quello in cui gli uomini, a causa di una eccessiva crescita demografica, siano costretti a vivere gli uni addosso agli altri e a produrre freneticamente per far fronte a tutte le necessità della sopravvivenza: parole profetiche.

Tre teste d’asino abbondanti a Ermanno Rea per questo libro. Cinque a Federico Caffè.

Poronga

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