Nel 1996 un “padroncino”, titolare di una piccola impresa, coadiuvato dal suo cugino-dipendente diede fuoco alla “Fenice” di Venezia allo scopo di sottrarsi alle penali per i ritardi nella consegna dei lavori di impiantistica elettrica del teatro, che gli erano stati subappaltati: un atto di inimmaginabile idiozia. Falco racconta questa vicenda, e lo fa bene, con una sorta di rassegnato disgusto. Peccato che il libro sia punteggiato da una serie di dissertazioni che ho trovato astruse e anche abbastanza fastidiose.
Ad esempio: “Il lapillo, con un passato all’interno del vulcano, di cui nessuno si ricorda; il lapillo istantaneo, marginale, disinteressato agli altri, al proprio destino di personaggio, vive senza rendersene conto“; oppure: “In mezzo all’incendio c’è una fiamma, ai bordi dell’incendio c’è una fiamma. Ogni fiamma è la biografia quasi irriconoscibile di un pezzo bruciato. Ogni fiamma dimentica la propria biografia individuale per vivere nella dimensione di grandezza collettiva“; “Le macerie sono testimonianze preventive, il presentimento di quello che sta per accadere, la potenzialità dell’evento. Le macerie sono anche il rimpianto per l’inespresso“. Vabbè.
Nel romanzo compaiono anche una serie di fotografie, credo dell’autore e della sua compagna fotografa, in pose ieratiche e mascherate, il che dà l’estro per una dissertazione sulla “maschera” che tutti probabilmente indossiamo, che ho trovato abbastanza micidiale, e che mi sono affrettato a saltare. Ne do un esempio: “Il denaro, sottinteso dai gesti, il denaro nascosto dalla maschera, è l’assoluto sempre in atto, è sguardo, pur non avendone uno proprio. Il denaro, sottinteso dai gesti, il denaro nascosto dalla maschera, è impersonale, purissima intuizione non vedente, che ti attraversa, e attraversa chi guarda“.
Un libro quindi che, nonostante l’entusiastica recensione apparsa su “La Lettura” (mannaggia), non mi sentirei di consigliare.
Poronga