In una torrida Napoli degli anni ’30 il commissario Ricciardi assieme al fedele brigadiere Maione si trova ad indagare sull’omicidio di una duchessa, trovata morta nei suoi appartamenti. E’ una donna avvenente, mangiauomini e senza scrupoli, che è riuscita a farsi sposare dal nobile e incartapecorito duca approfittando del suo lavoro di infermiera presso la prima moglie, morta da tempo.
Gli indiziati principali sono un giornalista, stregato dalla duchessa, e che per lei ha sconvolto la sua vita e lasciato la felice famigliola, e il figlio del duca, che chiama la morta “la cagna” e ostenta un odio senza quartiere, rammaricandosi unicamente di non essere stato lui a porre fine ai suoi giorni.
Il romanzo sviluppa il tema dell’amore come “malattia mortale” e della gelosia, e si conclude con un finale a sorpresa che però ho trovato alquanto costruito, cervellotico e didascalico. Bello invece il sottofinale.
Ricciardi, che sembra una creatura non di questo mondo, oltreché con l’indagine è alle prese con problemi di cuore, stretto fra il muto corteggiamento ad Enrica, e l’assedio mossogli dalla bella Livia (sospetto che l’autore non si sia accorto di aver descritto una vera oca), la cui avvenenza viene continuamente evocata, assieme al caldo opprimente dell’estate napoletana, con stucchevole enfasi.
Un bel passo indietro rispetto a “La condanna del sangue”, romanzo di esordio del Commissario Ricciardi, già commentato.
Poronga