Mario Vargas Llosa “Pantaleòn e le visitatrici”

vargasicona-voto-asino2icona-voto-asino2icona-voto-mezzoasinoL’esercito peruviano è alle prese con un grave problema: reclusi nella foresta amazzonica i suoi soldati danno sfogo ai loro istinti sessuali violentando tutte le donne che capitano loro a tiro.

Generali e colonnelli decidono di correre ai ripari organizzando un servizio itinerante di prostitute che soddisfi le pulsioni della truppa.

Viene incaricato dell’operazione il capitano Pantaleòn Pantoja, un militare modello che accetta senza discutere il compito, che svolge con la massima serietà e dedizione, anche a costo di mettere a repentaglio la serenità familiare.

Infaticabile e meticoloso, Panta studia la situazione, diffonde questionari ai soldati circa le loro esigenze (quante volte a seduta? con quale frequenza? con quale durata?), produce statistiche e grafici, e mette a punto una specie  di “macchina da guerra”, denominata SVGPFA (Servizio delle Visitatrici per Guarnigioni, Posti di Frontiera e Affini), presto ribattezzata “Pantilandia”, che può contare  addirittura su barche e aerei  per velocizzare gli spostamenti, e su decine di donne ben contente di essere state tolte dalla strada o da sordidi bordelli, e che -poveracce- si sottomettono senza discutere alle venti (!) prestazioni giornaliere che lo zelante Pantaleòn ha stabilito, dati alla mano, essere quanto necessario agli scopi prefissi.

La cosa va a gonfie vele (“Quell’idiota ha trasformato il Servizio delle Visitatrici nell’organismo più efficiente delle Forze Armate”, dice a un certo punto un generalone), anche troppo, il che fa sorgere problemi legati soprattutto al fatto che la gente inizia a collegare il SVGPFA all’esercito, cosa che si è tentato di evitare in tutti i modi (addirittura il povero Panta si è dovuto rassegnare fin dall’inizio a dismettere la amata divisa per indossare gli abiti civili).

Come andrà a finire?

Gustosa parodia, narrata con impassibile tono notarile, nella quale Don Mario utilizza a tratti la sua particolare tecnica di intrecciare e alternare dialoghi del tutto diversi fra loro, riuscendo a non appesantire la lettura (come invece avviene ne “La casa verde”) grazie all’abile uso di quelle che l’autore nella introduzione chiama “didascalie”.

Manca però secondo me il “colpo d’ala”, né giova molto l’innesto nel corpo del romanzo di due storie parallele, legate a una fanatica setta religiosa e a un sordido pennivendolo, che si intrecciano con il tema principale.

Insomma, dall’idea si parte e lì in fondo si rimane, risultandone una lettura non più che piacevole.

Poronga

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