Non sembra neanche un libro scritto da lui.
Il soggetto è interessante, poiché descrive la vita in un kibbutz, dove in effetti Oz è stato per alcuni anni; una comunità improntata e principi del socialismo, dove il lavoro intellettuale si mescola a quello manuale, vi sono continui momenti collettivi, dal refettorio comune agli incontri, ricorrenze, assemblee, feste ecc., la proprietà privata è limitata, la vita è improntata a una sobria severità. Oz dice, con un certo divertimento, che si spettegola anche molto, e che questo è anzi il passatempo più praticato.
In questo contesto si convive con il conflitto arabo/palestinese, che viene considerato come una sorta di fatalità, pur nell’eterno contrasto fra un’ala più radicale e una più incline alla ricerca della mediazione e della convivenza.
Vi sono molti personaggi, anche se nessuno di questi mi ha colpito in modo particolare. Al centro la vicenda dell’intellettuale poeta e contadino Ruben Harish che è stato lasciato dalla moglie e vive con due figli: un ragazzino serio e taciturno e una ragazza più grande che ha ereditato la bellezza della madre e un carattere inquieto e oscuro. Le vicende di questa famiglia, come in fondo tutto quello che accade nel kibbutz, diventa anche collettiva, e attorno ad essa si svilupperà il romanzo con varie altre ramificazioni.
Il punto è che il grande respiro intellettuale e l’incisività quasi febbrile che ho trovato in molti altri libri di Oz qui mi sono sembrati pressoché assenti: un libro abbastanza opaco, che scorre senza sussulti particolari di alcun genere, né stilistico né narrativo, e che a mio parere nulla aggiunge all’opera di questo autore, che è stato capace di veri capolavori.
Poronga