Peter Handke è uno scrittore cupo e severo i cui personaggi, fondamentalmente soli, si muovono quasi fossero automi.
In un luogo dagli inverni freddi, le estati afose, gli autunni umidi e nebbiosi vive l’umanità qui descritta : “goccioloni sulle funi del bucato, rospi che ti tagliavano la strada nel buio con un salto, moscerini, insetti, farfalle notturne anche di giorno, vermi e millepiedi sotto i ciocchi della legnaia; bisognava difendersi da tutto questo, non c’era altro da fare. Raramente senza desideri e felici, in qualche modo, per lo più senza desideri e un poco infelici“.
La infelicità senza desideri di cui si parla in questo piccolo libro è quella della madre di Hanke, donna forte e chiusa, dalla “tristezza inguaribile” e vissuta “senza predilezioni”.
Afflitta da quella che ho capito essere una forte depressione, la donna si suicida.
Il figlio le dedica questo libro che sta a metà fra il racconto-rievocazione, talvolta quasi onirico, e un’orazione funebre per poi concludere:
“Alla fine della lettera, che del resto conteneva solo disposizioni per il funerale, mi scriveva che era tranquilla e felice di addormentarsi finalmente in pace. Ma io sono sicuro che non è vero”.
E, avvertito del suicidio, sull’aereo che lo riporta in Austria Handke scrive “per tutto il volo fui fuori di me per l’orgoglio che lei si fosse suicidata“.
Ovviamente non c’è proprio nulla da stare allegri onde, anche per lo stile certo non facile di H., mi ha po’ meravigliato che nella presentazione il libro, apparso nel 1972, sia indicato come un bestseller “che resta forse ancora oggi il libro più amato di Handke”.
Poronga