Oz racconta la vita in un kibbutz, un tema a lui caro: un luogo disadorno, senza fronzoli, dove si studia e altrettanto si lavora senza far troppo caso all’odore quasi perenne di letame; dove si va a un funerale “in tenuta di lavoro perché il funerale era in orario di lavoro”, e dove “quasi tutti sono abbronzati, muscolosi e ben piantati“. Nel kibbutz le decisioni -anche quelle che riguardano il corso di studio dei giovani – vengono prese collettivamente e ci sono comitati che sovraintendono a tutto. “Tutto qui appartiene a tutti noi, tutti noi apparteniamo l’uno all’altra a vicenda, i figli devono esserlo di tutti“; tant’è che i bambini vivono in una “casa dei bimbi”: idea orrida.
Parità uomo donna? “Le donne sostenevano di godere di una parità assoluta qui da noi, ma la parità la ottenevano solo a condizione di comportarsi come gli uomini e di essere considerate uomini: guai a truccarsi o a mettersi il rossetto“.
Ovviamente il dissenso alligna accanto al consenso: “A Dana non piaceva la vita del kibbutz, sognava una vita privata”; mentre a Yotam per un attimo “sembra di essere già andato dal kibbutz verso un’altra vita, una vita senza comitati e assemblee plenarie, senza opinione della maggioranza né destino degli ebrei”.
Il libro assomiglia più a una raccolta di racconti che a un romanzo: sono però racconti collegati nel senso che in essi vanno e vengono personaggi in gran parte comuni, che accompagnano quelli sui quali di volta in volta viene puntato il riflettore, che a volte altrove appaiono come comprimari. Ovviamente di quando in quando affiora il tema del rapporto con i palestinesi e gli arabi in generale, non perché Oz ne voglia per forza parlare, ma per la forza dei fatti.
Si trova in pieno la miglior prosa di Oz, densa, austera e di grande efficacia. Non un rigo viene sprecato.
I racconti-capitoli sono tutti belli; a me è piaciuto in particolare “Di notte”, che racconta il turno di guardiano notturno svolto da Yoav Carni, il giovane responsabile del kibbutz, ed “Esperanto”, dedicato a Martin Wandberg, calzolaio anarchico.
Come si faccia a dare il Nobel a Fo, Modiano, Pamuk, Dylan e non a Amos Oz, se non per un malinteso ecumenismo, non me lo spiego proprio.
Poronga