Un cuore semplice, un pappagallo e due grandi scrittori.
Il primo dei Tre racconti di Gustave Flaubert è la descrizione struggente e malinconica della vita di una povera domestica condannata a un’esistenza di solitudine, proprio lei che ha un cuore semplice sì, ma traboccante di bontà, di bene, di amore. Tanto da finire per innamorarsi, dopo una vita di delusioni, di un esotico, coloratissimo pappagallo, Lulù, che la colmerà di gioia mistica.
È a partire da questo racconto, bellissimo, che Julian Barnes scrive il suo primo libro di successo, Il pappagallo di Flaubert, nel 1984. Un libro insolito, estremamente colto, intelligente, brillante, ma forse troppo pensato e cerebrale, sino a diventare, a tratti, sgradevolmente freddo, crudo, cinico: un libro che Barnes stesso definisce «un romanzo capovolto. […] un romanzo sulla paralisi delle emozioni, sul lutto». Bastino un paio di citazioni, da Flaubert, ma condivise incondizionatamente dal protagonista-narratore del Pappagallo di Flaubert: «Che cosa atroce la vita, no? Come un piatto di minestra su cui galleggiano non pochi capelli. E che dobbiamo comunque mandar giù». «La gente come noi deve avere la fede della disperazione. A furia di ripetersi ‘Ecco. Ecco’ e di contemplare il buio dell’abisso, ci si tranquillizza».
Interessantissimo, comunque, per chi volesse conoscere Flaubert, la sua vita, la sua passione per la scrittura. «Amo il mio lavoro di un amore ossessivo e convulso, come un asceta ama il cilicio che gli tormenta il ventre». Una passione assoluta, senza freni, onnivora, tormentosa («La parola umana è come un paiolo incrinato su cui veniamo battendo melodie atte a far ballare gli orsi, quando vorremmo intenerir le stelle») ma anche appagante come null’altro. «Sono una lucertola letterata che passa il giorno a crogiolarsi al sole splendido della Bellezza. Tutto qui».
Interessante anche, vedere come uno scrittore parli di un altro scrittore, e dunque del rapporto tra l’arte e la vita, tra i libri e i loro lettori, i lettori comuni e gli altri, privilegiati, i critici, che qui vengono fustigati senza remore (per la gioia del nostro Poronga): «Lasciate che vi dica perché detesto i critici. Non per le solite ragioni: che sono artisti falliti (di norma non lo sono; possono essere critici falliti, ma questa è un’altra faccenda); o che sono per natura cavillosi, invidiosi e vanitosi /di norma non lo sono, anzi li si può semmai accusare di eccessiva generosità, di sopravvalutare autori di second’ordine per far apparire più prestigiose le loro raffinate disquisizioni). [Ma piuttosto perché] si comportano come se Flaubert, o Milton o Wordsworth fossero altrettante vecchie zie barbose in sedia a dondolo, di quelle che puzzano di cipria rancida, parlano solo del passato e non dicono niente di nuovo da anni».
Solo il lettore comune, infatti, sa essere appassionato, vivere un rapporto intenso e vitale con il libro che legge, gravido di conseguenze per la sua esistenza quando incontra un libro importante che lo fa palpitare d’amore, come Lulù alla povera Felicité.
la signora nilsson